Progetto
“Buonsenso per la scuola”
Un investimento sul futuro
Settembre 2003
Hanno discusso le ipotesi di lavoro ed elaborato
il testo: Sergio Belardinelli, Luciano Benadusi, Giuseppe Bertagna, Luigi Bobba,
Vittorio Campione, Lorenzo Caselli, Alessandro Cavalli., Nicola D'Amico,
Fiorella Farinelli, Paolo Ferratini, Claudio Gagliardi, Claudio Gentili, Claudia
Mancina, Roberto Maragliano, Franco Nembrini, Luisa Ribolzi, Silvano Tagliagambe,
Elena Ugolini
"Il buon senso è la cosa al mondo meglio ripartita: ciascuno infatti pensa di
esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili da contentarsi in
ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più". (Cartesio,
Discorso sul metodo)
Quando un gruppo di persone che ha lavorato
intorno ad un progetto lo presenta all'esterno, si pone il problema di definire
chi sono e che cosa vogliono: naturalmente lo abbiamo fatto anche noi, ma alla
fine abbiamo pensato, forse ingenuamente, che la cosa che più importa non è
l'identità nostra, ma quella del nostro progetto, di quello che stiamo facendo e
che cosa intendiamo fare.
Diciamo allora, per il momento, che siamo un
gruppo di persone variamente impegnate nella società civile che sono d'accordo
sul fatto che l’istruzione e la formazione siano una priorità assoluta
per il nostro paese, e che questo non basta dirlo, ma bisogna sostenerlo nei
fatti. In questo senso, non si tratta tanto di affrontare e risolvere singoli
problemi (gli insegnanti, la struttura dei cicli, la valutazione…), ma
innanzitutto di promuovere un investimento della società sulla scuola,
che al momento, purtroppo, - al di là delle belle parole - non è una
preoccupazione costante, diffusa e prioritaria.
Una divisione in schieramenti ideologici nel
settore delle politiche educative, d’altra parte, non solo rende impossibile
prendere decisioni in tempi ragionevoli (nel secondo dopoguerra sono stati
presentati una quarantina di progetti di riforma della scuola, e nessuno è
andato in porto!), ma rende impossibile anche, e questo è molto peggio, un
lavoro comune finalizzato allo sviluppo umano oltre che economico delle giovani
generazioni e del paese nel suo complesso.
Il nostro obiettivo è allora duplice: identificare
i problemi prioritari, proporre soluzioni ragionevoli e realistiche, e creare
intorno a queste proposte un canale di comunicazione e dibattito in cui, senza
rinunciare alle proprie identità culturali, si confrontino e collaborino
posizioni legittimamente diversificate. Il favore con cui da più parti è stata
accolta questa ipotesi di lavoro ci conferma nell'opinione che molti siano
stanchi di cavilli e opposizioni frontali e immotivate, dentro e fuori i partiti
di governo e di opposizione, e desiderino mettersi all'opera su proposte
precise, anche se modificabili. Chi cerca dietro il nostro lavoro posizioni
strumentali e opportunismi, può continuare a farlo, ma è meglio che dedichi i
propri sforzi intellettuali in un’altra direzione.
Altri, non noi, ci hanno definito "quelli del
buonsenso": qualcuno trova riduttiva questa etichetta, qualche altro ritiene
invece che sia una forma di presunzione ritenerci depositari esclusivi di questa
umile ma preziosa dote: diciamo allora che questo è un progetto "di" buonsenso,
che si propone solo di riorientare il dibattito sulle cose, e di creare intorno
a sé un movimento di opinione pubblica attento al merito delle questioni.
Ciascuna delle persone che hanno lavorato intorno a questa prima ipotesi di
lavoro è responsabile in solido del documento, che intenzionalmente esce
senza un'attribuzione dei suoi singoli capitoli: ciascuno, parimenti, è
responsabile personalmente di ciò che firma in qualsiasi altra sede.
Le motivazioni di un progetto
Lo scenario della riforma -
La definizione dello scenario dal quale prendono
le mosse le riflessioni “di buon senso” che abbiamo cercato di fare in questi
mesi si basa esplicitamente su due convinzioni:
1) la scuola è già stata trasformata profondamente
dall'entrata in vigore dell'autonomia delle istituzioni scolastiche e di più lo
sarà dall’attuazione del Titolo V della Costituzione e dalla introduzione delle
ulteriori riforme costituzionali in discussione al parlamento (cosiddetta
devolution e ulteriore modifica del titolo V);
2) la scuola non può più pensarsi al di fuori di
un sistema formativo allargato e sempre più integrato.
A questo, si unisce la constatazione che esiste
una situazione di movimento (positivo) all’interno del mondo della scuola reale
che non si limita a percepire le trasformazioni in corso, ma le sta
metabolizzando, e incomincia a trasformarle in criteri per l'azione.
E’ per questo che vale la pena di impegnarsi per
contribuire al lavoro di questo "mondo reale" con elementi di riflessione,
approfondimento, di recupero di memoria collettiva, che si oppongano alla
deprecabile abitudine della sistematica distruzione delle scelte dei governi
passati (distruzione che produce solo appuntamenti per distruzioni future),
ponendo invece le condizioni per riassumere (nel senso di assumere di nuovo) i
processi di innovazione cominciati e, in parte, già realizzati.
Una "premessa nella premessa" sta nel riconoscere
finalmente che non ci sarà una seconda "riforma Gentile", intesa come una
trasformazione radicale del sistema scolastico da un modello ad un altro, che se
ne differenzia per la filosofia di base oltre che per l'ingegneria dei cicli, e
questo perché nella società attuale nessuna riforma può essere
autosufficiente, ma si presenta sempre, nella sua complessità, come dinamica e
intersistemica.
Si deve quindi passare dalla scansione secolare
delle "grandi riforme" - Casati nell'Ottocento, Gentile nel Novecento - a un
processo di rinnovamento che parta da un'attenta analisi dei bisogni
formativi e da un accordo sui punti qualificanti, e si sviluppi, poi, in modo
dinamico e interattivo.
I politici hanno forse la tacita convinzione che,
per i motivi più diversi, il discorso sulla scuola non abbia un ritorno politico
immediato, e che sia difficile mobilitare l'opinione pubblica su questo tema, a
meno che non si ritorni alla disputa ideologica, facendo un uso partigiano
dell'innovazione, come quando si ricorre a vieti slogan del tipo “la scuola
svenduta ai privati, la cultura classica svilita e annientata” e simili.
Ci preoccupa il fatto che questo atteggiamento sia
condiviso da larghi strati della società civile, che dovrebbe invece garantire
in prima persona la continuità dell'innovazione, poiché una riforma della
formazione finalizzata ad accrescere la competitività del paese e la crescita
personale e professionale è concretamente attuabile solo in presenza di un
consenso consapevole, esente da riserve mentali, su alcuni punti di comune
interesse per il paese e per i cittadini. I politici hanno il dovere di definire
il tempo minimo occorrente per l’attuazione dell’intero progetto (probabilmente
almeno due legislature); di fissare gli obiettivi intermedi da verificare; di
cercare il consenso su questi obiettivi impegnandosi a mantenerli anche nel caso
di un'alternanza politica, a partire da un'analisi delle trasformazioni in atto
nel contesto culturale, sociale, economico e politico.
Una riforma che sia per l'interesse di una sola
parte, non importa quale, è una riforma che condanna la scuola ad una posizione
subalterna e precaria, e brucia ogni possibilità di trasformarla in una comunità
di pratica educativa per gli insegnanti, per i docenti e in ultima analisi per
la società.
La sfida europea -
E' preoccupante constatare come, in Italia, i
diversi interlocutori si confrontino e si scontrino su taluni nodi
fondamentali con la testa rivolta all’indietro, come se le questioni importanti
fossero ancora quelle di venti o trenta anni fa, e ignorando ad esempio che
l'Europa potrà avere un ruolo competitivo rispetto agli USA e alle altre grandi
realtà mondiali solo perseguendo attivamente l’obiettivo che la UE si è posta a
Lisbona e a Barcellona: essere la società della conoscenza più forte e
competitiva del mondo entro il 2010. Questo obiettivo è realistico solo a
condizione:
- di
armonizzare in modo significativo i sistemi educativi dei principali
paesi europei,
- di abbattere l’attuale spreco di risorse
umane che in alcuni paesi (e in Italia!) è ancora fortissimo,
- di ancorare nel territorio, e nelle sue
capacità di visione strategica basate sul rapporto fra le autonomie, la
programmazione dell’offerta formativa, fermo restando il connettivo nazionale e
un irrinunciabile indirizzo unitario.
Di queste tre condizioni solo l’ultima è stata
introdotta nel sistema formativo italiano, con l'attuazione dell'autonomia, la
riforma del titolo V della Costituzione e le legge n. 53/2003, anche se la
normativa è ancora in divenire, e non chiarisce i compiti e i rapporti tra le
diverse agenzie centrali e regionali, e non affronta problemi come quello della
"partenza differenziata" e del supporto alle aree a diversa velocità di
sviluppo.
La complessità della vita sociale richiede
l'esistenza di un sistema graduale e continuo di formazione, interconnesso con
il sistema altrettanto graduale e continuo dell'istruzione, collegati entrambi
con percorsi flessibili di formazione continua e ricorrente. Armonizzare i
sistemi educativi e arrestare lo spreco di risorse umane significa certamente
svecchiare nei contenuti e nelle metodologie didattiche (e ri-formare per quanto
riguarda il personale docente) il sistema scolastico, ma significa anzitutto
realizzare un sistema formativo integrato, fra scuole statali e non
statali, fra istruzione generale e formazione professionale, che abbia
l’obiettivo esplicito di maturare persone in grado di inserirsi in modo attivo e
flessibile nella società e nel mercato del lavoro che l’innovazione tecnologica
ha prodotto.
La riforma prevista dalla legge n.53 del 28 marzo
2003 esplicitamente afferma che il sistema dell’istruzione liceale e il sistema
dell’istruzione e formazione professionale dovranno dare a tutti una solida
cultura generale e una preparazione specifica per l'ingresso nel mercato del
lavoro o per il proseguimento degli studi nell'università o nella formazione
superiore, con crescenti possibilità di passaggio dall'uno all'altro sistema, e
soprattutto con la possibilità di proseguire in un percorso qualificato di
istruzione superiore tecnica e professionale. Ma non bisognerà mai perdere di
vista che l'integrazione non nasce ricomponendo pezzi sparsi, ma agendo fin
dall'inizio in un'ottica di sistema che valorizzi istruzione e formazione,
scuola ed extrascuola, statale e non statale.
Le resistenze al cambiamento -
Il principale elemento di resistenza, se si vuole
definirlo in modo sommario e sintetico, può essere definito come "rigidità",
e si manifesta in molte forme. Da un punto di vista culturale, si configura
nella fatica ad uscire da una visione centralistica del governo non solo
amministrativo, ma anche didattico delle scuole (con l'organizzazione prevalente
del lavoro facente capo all'unità classe, gli orari settimanali delle materie
prestabiliti e uguali per tutte le situazioni e per tutto l'anno, i libri di
testo articolati per materie e gruppi di età, ecc.). Nonostante tutte le
affermazioni di autonomia, le scuole tendono ancora ad aspettarsi dal centro dei
"programmi" da "applicare". Bisogna invece far sviluppare una più varia
organizzazione delle attività di insegnamento e una più coraggiosa
valorizzazione degli apprendimenti e dei problemi a vario titolo maturati dagli
allievi.
E' una vera e propria mentalità della
conservazione, che è trasversale alle appartenenze ideologiche, e si esprime
in parte nel rifiuto della "cultura utile". Se chi la esprime sono gli
accademici, taluni editori scolastici, buona parte degli stessi docenti, è
necessario cercare di capire come può essere vinta e quali alleati si possono
trovare, partendo non dall'affermazione che la tradizione è inutile o riservata
a pochi privilegiati, ma dall'affermazione che la scuola non è un luogo dove si
trasmettono esclusivamente i saperi consolidati dalla tradizione.
La scuola deve essere capace di introdurre
nell'esperienza dei ragazzi riflessioni significative, che rispondano
alla loro esigenza di significato e di costruzione dell'identità, stimolando il
loro desiderio di apprendere e di organizzare il sapere intorno a problemi
riconosciuti non solo soggettivamente importanti; per di più facendolo senza
dirlo, per evitare quell'"effetto Re Mida rovesciato" per cui una cosa
introdotta ufficialmente nella scuola smette immediatamente di interessare i
ragazzi.
La strada giusta potrebbe essere quella di
potenziare l'approccio per progetti che è tipico dell'autonomia, fino a
costruire un piano dell'offerta formativa condiviso dall'intera comunità
scolastica, insegnanti, studenti e genitori: da questo punto di vista si
potrebbe valorizzare l'esperienza di alcune scuole paritarie, che hanno goduto
di una maggiore libertà. L'autonomia fa emergere i problemi, ma anche trova le
risposte, in integrazione con altri ambienti: a tale proposito lo stesso esempio
dell'impresa - che in alcune sperimentazioni si è impegnata per valorizzare la
collaborazione con la scuola non solo come metodo, ma anche come proposta di
contenuti - va tenuto fruttuosamente presente.
Viene in mente uno slogan virtuoso, quello che
potremmo definire delle "3A": autonomia, “allargato”, alternanza.
L'autonomia non è una minaccia per chi la pratica, l'alternanza non è una via di
fuga per i meno bravi, l'allargamento non è un abbassamento della qualità o una
perdita di significato della scuola, ma una premessa per introdurre e
valorizzare percorsi formativi non esclusivamente centrati sulla scuola.
Un secondo forte elemento di resistenza è la
difficoltà a mettere a regime il cambiamento: non esistono le condizioni per
portare a compimento l'innovazione con una certa continuità, perché i soggetti
che hanno cittadinanza nella società non vogliono o non sanno collaborare per un
bene comune che oltretutto fanno fatica a definire. Le istituzioni
cambiano perché cambiano le relazioni all'interno della società: siamo in
presenza di una pluralità di livelli e di ordinamenti per cui l'identificazione
scuola - Stato (per limitante che fosse), che proponeva agli insegnanti non un
"servizio pubblico", ma una missione in senso forte, e agli studenti
l'appartenenza ad una cittadinanza comune, è caduta, e non è stata sostituita da
nient'altro nella coscienza collettiva. Si può parlare di una crisi del "patto"
fra società civile, Stato e insegnanti, per cui al governo del sistema dovrebbe
subentrare una partecipazione dei diversi livelli nel determinare i contenuti,
indirizzare verso un obiettivo, controllare le relazioni fra la scuola e gli
altri mondi limitrofi.
Cercheremo di seguito di sviluppare le riflessioni
sullo scenario e sul contenuto globale dei saperi la cui trasmissione è affidata
alla scuola, definendo poi alcune priorità su cui abbiamo elaborato alcuni
contributi specifici, che includono linee di azione.
1. Lo scenario
1.1 Allargare il consenso sulla riforma del
sistema di istruzione e di formazione
In un sistema bipolare gli ambiti della decisione
politica non soggetti al criterio puro della maggioranza devono essere pochi.
Da una parte stanno i fondamenti delle istituzioni (principi generali della
Costituzione, unità nazionale, difesa, ecc.), dall’altra i fondamenti della
democrazia (forma dello stato, funzionamento degli organi della rappresentanza,
indipendenza dei media, ecc.), terreno nel quale si definiscono le regole
del gioco e su cui è auspicabile un consenso bipartisan. Su tutto il
resto è fisiologico che la maggioranza decida e che la minoranza controlli.
In linea di principio, le politiche
dell’istruzione e della formazione stanno nel campo delle opzioni, per dir così,
partisan. Del resto nessuno rimpiange la stagione lunghissima
dell’immobilismo consociativo, quando la ricerca estenuante della mediazione
bloccava, prima o dopo, ogni intenzione riformatrice.
Eppure, le scelte di fondo in materia hanno una
portata tale, in termini di conseguenze reali sul presente e sul futuro del
paese, da suggerire qualche cautela ulteriore. Sia che intervenga sugli
ordinamenti o sui modelli organizzativi, sui curricoli o sui livelli di governo,
ogni soluzione riformatrice che tocchi i grandi nodi di struttura, da un lato,
condiziona nel tempo la qualità e la natura dei processi educativi e formativi
per più leve di giovani studenti, dall’altro, incide alla lunga, in modo più o
meno diretto, sulle dinamiche del mondo del lavoro.
Benché con minore evidenza rispetto al passato, da
quelle scelte finiscono inoltre per dipendere esiti decisivi per la costruzione
civile e culturale della comunità, con ciò che ne consegue sotto il doppio
profilo dei comportamenti individuali e del capitale sociale.
La specialità delle politiche scolastiche sta
dunque nel fatto che esse hanno per natura una portata intergenerazionale e nel
contempo influiscono, nel medio periodo, sulla qualità sia del sistema
produttivo, sia della vita associata nel suo complesso. Si tratta insomma di un
campo delicatissimo, nel quale le scelte sbagliate, le riforme mancate o
lasciate a metà, producono effetti perversi nel lungo periodo.
Va poi aggiunta a queste un’altra considerazione,
relativa ai «tempi» delle riforme, inevitabilmente lunghi sia per quanto
riguarda la messa a regime delle innovazioni, sia, e soprattutto, in termini di
osservabilità dei risultati. Se, per ipotesi, ad ogni cambio di maggioranza il
nuovo governo decidesse di azzerare la riforma avviata dal governo precedente
nessuna innovazione avrebbe il tempo per assestarsi e per produrre effetti
misurabili e comparabili.
Riconoscere la centralità strategica delle scelte
in materia di scuola e formazione e la complessità attuativa delle riforme nel
settore non implica tuttavia di per sé la ricerca di soluzioni bipartisan
in senso stretto. Non si tratta di perseguire intese politiche che portino
necessariamente a voti trasversali in Parlamento ed è del tutto plausibile che
la maggioranza porti in aula la «sua» riforma e se la approvi da sola, come
peraltro è successo recentemente nel caso della riforma proposta dal Ministro
Moratti; non è infatti sulle decisioni ultime che va cercata la convergenza.
Vi sono tuttavia alcune questioni, sulle quali
occorre che le parti convengano, che possono costituire il fondamento su cui
sarà possibile non solo costruire un’ipotesi riformatrice ed avviarla a
compimento, ma anche, in futuro, correggerne l’impianto senza con questo
ricominciare tutto da capo.
Non dovrebbe poi essere così difficile raggiungere
un consenso largo su obiettivi e priorità, attraverso un dibattito sereno,
libero da pregiudiziali ideologiche e che nella individuazione delle strategie e
dei mezzi decida di adottare un atteggiamento sperimentale, nella convinzione
che nessuno dispone a priori delle soluzioni in assoluto «corrette». Ogni
soluzione ha i suoi «pro» e i suoi «contro» e ogni decisione richiede di essere
attentamente valutata affinché i secondi non prevalgano sui primi. Una classe
dirigente all’altezza dinanzi ad un compito così complesso e decisivo,
dovrebbe infatti fare propria un’attitudine riformatrice coraggiosa e insieme
cauta, improntata ad un’interpretazione di ampio respiro dei fenomeni, ma
contemporaneamente capace di proporre soluzioni «a termine», verificabili e
quindi soggette a correzione in corso d’opera. Un approccio «galileiano», che
nel "provare e riprovare" sperimenti la capacità di mettere continuamente a
confronto le analisi dei problemi e le risposte adottate con una realtà mutevole
e differenziata qual è quella scuola. In altre parole, abbiamo bisogno di una
riforma che contenga in sé i meccanismi della sua auto-correzione. La turbolenza
dell’ambiente richiede la necessità di tenere fissi gli obiettivi, ma di
adattare le strutture ai bisogni mutevoli di una società dinamica.
Va da sé che la necessità di un’impostazione
sperimentale e non ideologica non comporta affatto la sterilizzazione politica
del dibattito e, meno che mai, la sua riduzione sotto specie tecnica. Sono
scelte eminentemente politiche quelle che ci stanno di fronte, e non vi è dubbio
che spetti al centrosinistra e al centrodestra fornire risposte diverse, anche
in ragione delle diverse sensibilità e degli interessi dei gruppi sociali che
rappresentano. E’ dunque naturale, per esempio, attendersi che l’accento di una
riforma cada più sul valore dell’equità che su quello della competizione, a
seconda della maggioranza che la promuove; ciò che non è più lecito è lo scontro
pregiudiziale, l’incapacità colpevole di trovare un terreno comune almeno sul
piano dell’individuazione dei problemi – e su quello, conseguente,
dell’indicazione delle priorità.
Sotto questo profilo, il dibattito politico in
Italia è da tempo molto arretrato per motivi prima di tutto culturali. Una
inveterata desuetudine ad affrontare e interpretare i processi e i sistemi di
istruzione con gli strumenti dell’analisi empirica forniti dalle scienze sociali
e una tradizione pedagogica di stampo normativo-prescrittiva: questo è il
panorama cui da sempre il decisore politico e le stesse istituzioni hanno fatto
riferimento quando affrontano i problemi della scuola. Un habitat molto
favorevole alle dispute sui manuali di storia o sull’ora di religione, sul tema
di maturità o sull’utilità e il danno del latino per la vita; e altrettanto poco
ospitale verso chi proponga comparazioni internazionali sull’efficacia dei
diversi sistemi, indagini attendibili sulle aspettative delle famiglie e delle
imprese nei confronti della scuola, ricerche qualitative e quantitative sulle
disfunzioni reali del sistema, analisi del «rendimento», ecc. In una parola, di
quell’apparato di conoscenze sulla situazione attuale, senza il quale non solo
non si può dare un’interpretazione condivisa dei problemi da risolvere, ma
neppure è possibile aprire un dibattito serio, che non riproponga
contrapposizioni ideologiche invecchiate e immagini di una realtà che non c’è
più – se mai c’è stata.
Proviamo quindi a mettere in fila i problemi e gli
obiettivi sui quali è opportuno, anzi probabilmente necessario, costruire un
ampio consenso che sostenga lo sforzo riformatore.
1.2. Scuola e società dell’apprendimento
I paesi avanzati dell’Occidente stanno vivendo
nella presente fase storica la transizione dall’industrialismo alla società
post-industriale. Una delle caratteristiche salienti di questa transizione è il
ruolo cruciale che nella nuova organizzazione sociale vanno assumendo i processi
di apprendimento come strumento di crescita dello sviluppo personale e, con e
grazie a questo, sia della occupabilità sia della cittadinanza attiva.
Il concetto di competenza, nella sua complessità –
in quanto inclusivo della conoscenza ma anche dell’atteggiamento e dell’abilità
– ben si presta a fungere da ponte tra la sfera della formazione e la sfera
delle pratiche sociali, considerato che in larga misura queste suppongono un
soggetto non solo intelligente ma anche, e sempre più, competente.
L’Ocde ha raccolto un gruppo di specialisti di
varie discipline per individuare le competenze/chiave, da cui dipende oggi, in
senso non solo economico, la «crescita delle nazioni» e del mondo globale in cui
esse si trovano ad interagire. In uno dei documenti prodotti nell’ambito del
progetto DeSeCo (Definition and Selection of Competencies), si legge che
«le competenze/chiave sono rilevanti per la effettiva partecipazione non solo
nella scuola e nel mercato del lavoro, ma anche nel processo politico, nelle
reti sociali e nelle relazioni interpersonali inclusa la vita familiare, e più
generalmente, per sviluppare un senso di benessere personale» . Le prime ad
essere individuate sono tre competenze generali (suscettibili di specificazione
concettuale ed operativa con la costruzione di appositi indicatori):
- agire autonomamente e riflessivamente;
- usare strumenti tecnologici in modo interattivo;
- fare parte di ed operare entro gruppi sociali
eterogenei.
E’ evidente che le sempre più numerose competenze
necessarie per partecipare in modo attivo e consapevole alle pratiche di una
società complessa non possono essere formate solo dalla scuola ma richiedono una
distensione temporale e una diffusione spaziale dei processi di apprendimento. I
quali, a loro volta, non possono essere identificati con il solo apprendimento
formale (scolastico), ma debbono abbracciare altresì gli svariati ambiti
dell’apprendimento non formale e informale, dove entrano in gioco una serie di
agenzie e di tecnologie diverse, dai tradizionali mezzi di comunicazione di
massa all’ e-learning, dalle organizzazioni produttive di beni e servizi
a quelle più specificamente operanti nel campo dell’offerta culturale e dell’uso
del tempo libero.
Le competenze/chiave, del tipo di quelle cui si è
prima accennato, proprio perché fondanti la capacità del soggetto di scegliere i
suoi progetti di vita e di programmare i suoi ulteriori percorsi di
apprendimento, vanno riconosciute come ambito specifico e prioritario di
intervento della formazione iniziale e, quindi, della scuola che della
formazione iniziale è luogo non esclusivo ma certamente determinante.
Alla scuola spetta, dunque, il compito di porre le
basi per il funzionamento e lo sviluppo della ‘società della conoscenza’. Ciò
significa per l’istituzione scolastica la necessità di affrontare una serie di
sfide dal cui esito dipenderà in definitiva la sua legittimazione a continuare
ad esercitare un ruolo determinante in un contesto che vede progressivamente
ridimensionarsi il monopolio della formazione formale e prendere corpo un
sistema pluralistico di offerte formative.
1.3. La sfida delle nuove tecnologie
La prima sfida è proprio quella insita nel
superamento di tale monopolio – il cosiddetto scuolacentrismo – che richiede da
parte della scuola il ripensare la propria funzione specifica in un mondo
denso di opportunità formative di varia origine e natura.
I concorrenti i più agguerriti sono proprio quelli
riconducibili alle nuove tecnologie, cioè alla terza galassia dei mezzi di
comunicazione (il computer e la telematica dopo la carta stampata e la
televisione), che contrappongono al plurisecolare «modo di produzione»
scolastico dell’apprendimento nuove modalità più autonome, flessibili e
differenziate quali sono consentite dalla multimedialità e dalla interattività
che caratterizza l’attuale generazione delle tecnologie impiegate per l’e-learning.
Di fronte all’irrompere del computer e di internet
sulla scena dei processi di apprendimento qualcuno prevede un futuro in cui la
scuola sarà interamente soppiantata dalle nuove modalità di auto-apprendimento
in rete, un apprendimento non più insegnato ma semmai tutorato e prevalentemente
on line. Non mancano, tuttavia, buone ragioni per affermare che il ruolo della
scuola rimane per certi versi insostituibile. Soprattutto, è difficile che le
tecnologie dell’informazione e della comunicazione, per quanto divenute
interattive, possano permetterci di fare a meno del rapporto educativo
(fra adulti e ragazzi, ma anche dei ragazzi fra loro) che si realizza nella
scuola.
Questa, peraltro, potrà sopravvivere solo se
imparerà ad integrarsi con i suoi concorrenti ed a fare di essi degli utili
alleati in funzione dei suoi obiettivi. Aprire la scuola a computer e reti
telematiche e ospitare forme miste di apprendimento – in presenza e a distanza,
tecnologizzate e tradizionali, autonome e basate sull’insegnamento – significa
per la scuola mettere da parte l’illusione dell’autosufficienza, disfarsi delle
ambizioni enciclopediche e ridimensionare l’apparato nozionistico del cui spesso
superficiale assorbimento da parte dei giovani studenti essa continua, sia pure
in maniera sempre più affannata ed infruttuosa, a farsi carico.
Una scuola che operasse tale scelta, sollevata in
parte dal compito della trasmissione delle informazioni cui possono ormai fare
fronte con efficacia i vecchi e nuovi strumenti offerti dalla tecnologia,
potrebbe dedicarsi con maggiore impegno alla formazione delle abilità cognitive
di rango più elevato, quelle che si traducono nella creatività e nel pensiero
critico. La riduzione della sua missione in termini di estensione sarebbe
compensata da una crescita in termini di intensità.
1.4. La sfida della soggettività, della
flessibilità e del decentramento
Una risposta adeguata alla sfida di cui si è
parlato contribuisce, inoltre, a rispondere ad una seconda sfida, non meno
impegnativa. Si tratta di quella che potremmo definire la sfida della
soggettività.
In tutti i campi della vita sociale si assiste
oggi all’affermazione di un bisogno da parte degli individui e dei gruppi di
vedere riconosciuta la propria identità, di fruire di spazi di libertà, sia
positiva (libertà di, partecipazione) sia negativa (libertà da, autonomia). Le
organizzazioni che resistono a questa richiesta, che non si fanno rimettere in
discussione dai soggetti che le abitano, non cercano di incorporarne motivazioni
e costruzioni di senso e non riescono a rispettare la loro, spesso irriducibile,
diversità sembrano condannate ad una ineluttabile perdita di legittimazione e di
credibilità. Ciò vale tanto per le imprese che debbono fare i conti sul mercato
con una domanda più esigente e differenziata di un tempo, quanto per le
organizzazioni pubbliche o sottoposte a forme pubbliche di regolazione, come la
scuola.
Il primo dei soggetti che esprime con crescente
insofferenza un’istanza di riconoscimento nei confronti dell’istituzione
scolastica è lo studente, almeno a partire dall’età dell’adolescenza. Dalle
indagini sui giovani italiani emerge che il motivo principale di insoddisfazione
degli studenti per l’operato della scuola e degli insegnanti è costantemente la
percezione di non essere compresi, riconosciuti. Del resto, la vita delle scuole
– gli insegnanti lo sanno molto bene – è sempre più costellata da fenomeni di
malessere studentesco che prendono forme diverse, dalla caduta di interessi,
motivazioni ed impegno all’indisciplina e talora perfino a più o meno gravi
manifestazioni di violenza, e tutto ciò si traduce in scarso rendimento negli
studi, irregolarità di frequenza, bocciature ed abbandoni.
All’origine della disaffezione si possono
rintracciare diversi fattori. Uno di questi, forse il principale, è il divario
tra gli spazi di autonomia e di riconoscimento (sebbene, talvolta, solo
apparente) di cui i giovani e gli adolescenti godono in generale nella nostra
società, spesso ormai anche nell’ambito della famiglia, e lo stato di soggezione
in cui essi, viceversa, si sentono incapsulati quando si trovano a scuola: un
mondo che non hanno scelto e del quale stentano spesso ad afferrare regole e
significati.
La scuola ha dunque un conto aperto con i suoi
studenti, un conto che può chiudere solo affrontando in modo pregiudiziale la
questione della motivazione e stabilendo con loro un vero e proprio contratto
pedagogico, strutturato su obiettivi condivisi e reciproci impegni ed
aspettative.
Quanto si è detto a proposito degli studenti
comporta una maggiore flessibilità in materia di curricoli, metodologie
didattiche, organizzazione, una flessibilità che sarebbe alla portata degli
istituti scolastici con la valorizzazione dell’autonomia. Ma a questo fine non
si può prescindere da un mutato quadro di competenze della scuola e degli
insegnanti, competenze centrate non più solo sulle discipline di insegnamento ma
anche sul ruolo che esse svolgono nella chiarificazione e soluzione dei problemi
personali e sociali, sui destinatari dell’azione educativa e sulla gestione
delle relazioni tra docenti, discenti e ‘discipline’.
Un’analoga esigenza di flessibilità e di
riconoscimento si pone con riferimento ad altri soggetti che entrano in gioco
nella e attorno alla formazione iniziale: la famiglia, la comunità locale, le
istituzioni pubbliche e private in essa presenti, e che sono a vario titolo
interessate agli effetti dell’attività educativa. L’intero processo di riforma
della pubblica amministrazione, del resto, in Italia come all’estero, è alla
ricerca di modalità post-burocratiche di organizzazione che significano, fra
l’altro, decentramento, strutturazione a rete, «personalizzazione» dei servizi
in base alle esigenze degli utenti e loro coinvolgimento nella gestione e nel
controllo degli stessi. La riforma dell’autonomia delle istituzioni scolastiche
si inscrive in questo quadro ma è ancora una riforma incompleta, che ha bisogno
di ulteriori sviluppi.
1. 5. Il rapporto scuola/lavoro e
l’integrazione fra sistemi
Una terza sfida riguarda il rapporto tra scuola
e lavoro. Il post-fordismo, la specializzazione flessibile, l’organizzazione
piatta, la qualità sono tante etichette con le quali si suole designare una
serie di processi di innovazione che investono in profondità il tradizionale
modo di lavorare, facendo emergere, ai vari livelli della struttura
occupazionale, la necessità di un soggetto/lavoratore più qualificato, più
autonomo, più intraprendente. Per formare tale soggetto occorre puntare su un
avvicinamento fra studio e lavoro, fra scuola e impresa, mondi che le società
tradizionali, inclusa la società industriale, avevano invece configurato come
entità separate e per lo più distanti. A seguito dell’avvento del post-fordismo
si è cominciato a parlare con qualche realismo di una «corrispondenza» tra
educazione ed economia, ma questa corrispondenza deve essere reciproca, non
basarsi solo sull’adattamento della scuola ai bisogni dell’economia ma anche
viceversa.
La scuola, l’università, il sistema
dell’istruzione e formazione professionale costituiscono tre dei pilastri sui
quali si reggono i «sistemi nazionali di innovazione» che alimentano la
maturazione personale di ciascuno e, con questa, la crescita economica e civile
delle nostre società, in particolare di quelle entrate nella fase
post-industriale.
Per superare la tradizionale scissione fra studio
e lavoro e divenire parte costitutiva di un sistema nazionale di innovazione, la
scuola, che per lungo tempo ha assolto invece preminentemente un ruolo di
legittimazione delle disuguaglianze sociali, deve essere, a sua volta, capace
di innovazione, deve cioè saper ripensare e ristrutturare i modi tradizionali
con cui opera. In una logica di «integrazione» l’intreccio e l’alternanza di
esperienze di aula, di laboratorio e di vera e propria attività lavorativa
condotta in situazione di apprendistato o di tirocinio diventano requisiti
fondamentali del curricolo scolastico, come lo diventa lo sforzo di non fermarsi
alle conoscenze - sulla cui importanza, peraltro, non si discute – ma di cercare
di tradurle in competenze, attraverso la partecipazione a pratiche rilevanti sul
piano sia sociale sia propriamente culturale.
La logica dell’integrazione se vale tra scuola e
lavoro a maggior ragione deve valere fra istruzione generale da un lato e
istruzione e formazione professionale, dall’altro. Il «professionalismo»
non deve più essere considerato un principio educativo minore, destinato ad
essere associato a percorsi scolastici culturalmente impoveriti, rifugio degli
studenti espulsi per inadeguatezza dai percorsi formativi «nobili». D’altronde,
la tendenza a rivalutare l’istruzione e formazione professionale, a conferirle
un maggiore spessore culturale pur mantenendone come specificità un più
ravvicinato legame con il lavoro, a raccordarla in vario modo alla formazione
generale in modo da lasciare aperte il più possibile le scelte degli studenti e
a configurarla come un tracciato non inferiore all’istruzione liceale ma
equivalente nella sua diversità, è una tendenza che va diffondendosi a livello
internazionale ed è, del resto, l’unica strategia possibile per evitare che si
determini, come sta accadendo in alcuni paesi, il progressivo svuotamento
dell’istruzione e formazione professionale a favore dell’istruzione liceale.
1.6. Il rapporto qualità/equità
Una quarta sfida riguarda il rapporto fra
qualità ed equità. Vi sono più definizioni di ciò che è da considerarsi
qualità nella scuola e tra queste una crescente rilevanza vanno acquistando
quelle espresse dagli utenti diretti del servizio, gli studenti e le loro
famiglie. Il giudizio soggettivo dell’utente non può peraltro essere l’unico
parametro cui riferirsi: esso deve essere integrato dal giudizio espresso dagli
esperti, dall’insegnante in primo luogo ma anche, e sempre più spesso, da una
nuova figura professionale che va emergendo: il valutatore indipendente dei
processi e dei risultati formativi. Una delle funzioni principali che le varie
articolazioni dell’amministrazione pubblica stanno assumendo, nello stesso
momento in cui allentano il proprio controllo diretto sul funzionamento delle
organizzazioni scolastiche concedendo loro un'autonomia organizzativa e
gestionale, è proprio quella di predisporre meccanismi di valutazione
dell’operato di tali istituzioni.
L’attenzione portata ai temi della qualità non
deve, tuttavia, far passare in secondo piano i problemi connessi all’equità dei
sistemi educativi e formativi. Un sistema scolastico senza equità, dove si
determinino forme ingiuste di selezione, discriminazione e squilibrio a danno
delle classi sociali, dei gruppi etnici e delle aree territoriali svantaggiate
finirebbe inevitabilmente per essere senza qualità, ovvero per circoscrivere la
qualità dei servizi offerti solo ai giovani che si trovano, senza loro merito, a
fruire di condizioni socio-economiche e culturali di vantaggio. Esso, inoltre,
contribuirebbe al propagarsi della conflittualità e della sfiducia nelle
istituzioni anziché porsi come uno strumento di coesione sociale.
Dal punto di vista dell’equità, il sistema
educativo italiano presenta carenze molto rimarchevoli, anche nel confronto
internazionale. Basti ricordare che oltre il 30% di una classe di età esce dalla
scuola senza aver acquisito nessuna qualifica professionale o titolo di studio
secondario-superiore, e ciò in conseguenza di un tasso di dispersione che rimane
ancora troppo elevato. Inoltre, un giovane su 15 non raggiunge nemmeno la
licenza media, condannandosi così ad uno stato di dequalificazione destinata a
incidere in modo pesante sul futuro lavorativo e, più ampiamente, sociale. Né
può sfuggire la gravità del fatto che l’influenza della origine sociale dei
giovani (occupazione e livello di istruzione dei genitori) sull’accesso alla
scuola secondaria superiore, la scelta dell’indirizzo di studi e il
conseguimento del diploma, non soltanto è molto forte ma è anche immutata nel
tempo, non essendo sensibilmente cambiata nel corso dell’intero secolo appena
concluso.
Pertanto, uno dei punti che una politica di
riforma della scuola non potrà non mettere all’ordine del giorno dandogli una
decisa priorità, è quello della equità. Si tratta di perseguire una
maggiore eguaglianza di opportunità nella carriera scolastica senza, peraltro,
peggiorare ma, al contrario, migliorando i livelli di qualità complessivi. Ciò
significa proporsi, contemporaneamente all’obiettivo della maggiore equità, di
elevare, ad esempio, i risultati relativi ottenuti dai giovani italiani per
quanto riguarda l’apprendimento dell’italiano, della matematica e della scienze,
risultati che la recente rilevazione internazionale compiuta dall’Ocde sui
quindicenni (l'indagine Progetto Pisa) vede attestarsi per molti indicatori
sotto la media dei numerosi paesi partecipanti.
2. L'impianto culturale e didattico
2.1 Operatività e astrazione
Una delle conseguenze di maggior rilievo (e,
peraltro, spesso dimenticata o posta in secondo piano) dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche, è il venir meno, almeno in via di principio, del
tradizionale automatismo del passaggio da un ciclo all’altro degli studi: ad
esempio, l'università (si veda l'art.6 del D.M. 509/99) oggi è tenuta a
verificare se chi si immatricola possiede davvero la preparazione iniziale
necessaria per frequentare il corso di laurea prescelto. Ciò significa che alla
scuola, con l’autonomia e come conseguenza tutt’altro che secondaria di questa,
è attribuita una chiara responsabilità nei confronti dell’ambiente di
riferimento: essa deve, cioè, rispondere, in ingresso e in uscita dei corsi
di studio, dell’efficacia dell’istruzione che fornisce ai sistemi con cui
intrattiene “relazioni esterne”, comunque intese, in particolare i soggetti
privilegiati, gli stakeholder, vale a dire le istituzioni che hanno
interesse specifico, e non solo generico, all’instaurazione e al mantenimento di
proficui rapporti con l’organizzazione scolastica medesima.
Se dunque è fondamentale, per il sistema
scolastico, preoccuparsi anche delle prospettive d’impiego degli
studenti, è tuttavia essenziale, sul terreno della definizione dei compiti
generali di istruzione e formazione che gli sono propri, operare una chiara
distinzione tra due aspetti che, invece, vengono sovente sovrapposti e confusi
tra loro: si tratta, da una parte, della dimensione operativa della
conoscenza e, dall’altra, della finalizzazione della conoscenza alla
capacità di svolgere uno specifico lavoro o di esercitare una determinata
professione.
Operativizzare la conoscenza
significa individuare una dimensione
dell’istruzione e della formazione che tenga nel debito conto il nesso tra
sapere e fare, tra le conoscenze acquisite e la competenza nell’affrontare e
risolvere con successo problemi concreti in cui quelle conoscenze siano in
qualche modo utilizzabili, tra i concetti e gli schemi d’azione e i
comportamenti pratici che implicano.
Questa finalità non ha, di per sé, nulla a che
fare con la soddisfazione di specifiche esigenze del mondo del lavoro, anche se,
ovviamente, facilita l’emergere di una maggiore sensibilità e attenzione nei
confronti di queste ultime; ha, invece, un preciso significato di teoria della
conoscenza e una specifica dignità culturale, in quanto tende ad assumere, come
punto di avvio del processo conoscitivo, non tanto dati certi e
inoppugnabili, quanto piuttosto problemi.
In tale prospettiva, oggetto di studio ed elemento
di partenza del percorso che conduce all’acquisizione di una nuova conoscenza
dovrebbe essere sempre un problema iniziale, al quale l’agente che se ne occupa
risponde cercando di elaborare un tentativo teorico di soluzione, che poi viene
sottoposto a controllo continuo tramite procedure di individuazione e di
eliminazione dell'errore, procedure che condurranno poi, eventualmente, alla
formulazione di un altro problema più avanzato rispetto al precedente.
Questo approccio ha tra l’altro l’ulteriore e non
certo secondario vantaggio di favorire una prospettiva interdisciplinare
rigorosa e concreta, che non si riduce alla tendenza a dispensare nozioni
generiche e vaghe, ma fa della capacità di vedere e capire la natura intrinseca
di un problema, di comprendere quali caratteristiche siano rilevanti e
pertinenti e quali no l’obiettivo fondamentale da raggiungere. Questo approccio
comporta inoltre la capacità di trasferire i problemi da un ambito all'altro
senza snaturarli.
Una caratteristica essenziale presente in questo
processo è l’astrazione, ovvero la capacità di identificare
caratteristiche comuni in campi differenti, così che idee generali possono
essere elaborate ed applicate di conseguenza a situazioni a prima vista anche
assai diverse fra loro. L’astrazione ha la preziosa caratteristica di fare
emergere, laddove tutto sembra simile, sottili divergenze e quindi di portare
alla luce, tra fenomeni e processi apparentemente del tutto eterogenei, analogie
a priori impensabili; sollecita lo sviluppo di modelli per sistemi astratti e fa
emergere l’attitudine a coglierne le proprietà fondamentali. Per l’insieme di
questi aspetti l’analisi che parta da problemi può diventare uno dei principali
elementi aggreganti (e qualificanti) del processo di insegnamento
apprendimento, sempre che si vogliano seriamente porre, al fondo delle questioni
relative al che cosa e al come far apprendere, delle questioni di rilevanza
epistemologica. In altre parole, fonda e sviluppa la prospettiva e la pratica
interdisciplinare e transdisciplinare.
2.2 Istruzione e formazione
E’ in questo quadro che si può e si deve inserire
la questione del consolidamento del sistema educativo nel suo complesso. Si
tratta di un obiettivo da perseguire attraverso l’innalzamento della qualità
globale del sistema, in particolare tramite la valorizzazione dell’intreccio (e
la relativa saldatura didattica) tra l’itinerario dell’istruzione, orientato
soprattutto verso la teoria, e l’itinerario della formazione, che guarda invece
in prevalenza alla prassi e al fare consapevole.
Un simile rafforzamento deve, ovviamente, partire
dalle specificità che caratterizzano positivamente il sistema dell’istruzione e
formazione professionale e gli conferiscono una specifica identità, soprattutto
il forte radicamento nel territorio di riferimento, a partire
dalla conoscenza delle sue caratteristiche e delle sue peculiari esigenze ai
fini della crescita economica e dello sviluppo sociale e culturale, la messa
in campo di un apprendimento centrato su esperienze concrete e
cooperative, legate agli ambienti e all’organizzazione del lavoro, il
legame diretto con la cultura tecnica e professionale, la flessibilità
e la costante apertura all’ innovazione e all’aggiornamento.
Assumendo come cardini questi aspetti qualificanti
occorrerà procedere ad un rafforzamento globale dell’identità del sottosistema
dell’istruzione e formazione professionale, e puntare a una più adeguata
definizione dei suoi tratti caratterizzanti, quali l’accreditamento dei soggetti
e l’individuazione delle tipologie formative, dei profili professionali, delle
qualifiche e delle certificazioni di competenza. Ciò anche al fine di realizzare
concretamente il principio della pari dignità fra sistema dell’istruzione e
sistema dell’istruzione e formazione professionale.
In questa prospettiva, una prima misura da
assumere è la costituzione di un sistema di valutazione, reciprocamente
riconosciuto, dei crediti conseguiti nell’uno e nell’altro percorso, in modo da
non lasciare al livello di semplice principio la continuità e la permeabilità
tra istruzione e formazione. Per rispondere a tali esigenze e finalità il
sistema di valutazione deve essere frutto di accordi, promossi dalla Regione,
tra e con tutte le componenti del sistema formativo e le parti sociali, e sulla
base di parametri generali di carattere nazionale, in modo che si arrivi alla
definizione di procedure comuni per il riconoscimento, la certificazione e
l’individuazione degli ambiti di utilizzazione delle diverse competenze.
2.3 Dai soggetti individuali a quelli
collettivi.
L’esigenza, sentita nell’intera Unione europea, di
sviluppare un maggiore e migliore raccordo tra istruzione e formazione è, come
noto, alla base della crescente diffusione dei termini “competenza” e
“capacità”. E’ difficile capire il senso e la portata dell’autentica rivoluzione
concettuale che si intendeva attuare con l’adozione preferenziale di questi
termini se non si riconosce alla loro base c’è l’idea di trasferibilità di
qualcosa di definito, il credito. All’uso del termine “competenza” è
associato un autentico cambiamento della prospettiva della formazione,
nell’ottica di una sempre maggiore personalizzazione dei servizi erogati
centrata sulla negoziazione del contratto formativo.
La competenza, dunque, si caratterizza per la sua
proiettatbilità su altri contesti, e quindi per la sua
trasferibilità. E’ bene osservare, in proposito, che oggi l’identità delle
tecnologie, in particolare di quelle dell’informazione e della comunicazione, e
dell’apparato produttivo basato su di esse, presuppone proprio la competenza
così intesa.. Non a caso la caratteristica fondamentale di quella che oggi viene
usualmente chiamata la "società della conoscenza" è di mettere quanto più
possibile e nel modo più rapido ed efficiente in comunicazione persone o gruppi
di persone e di considerare le competenze tecniche come risultati che emergono e
vengono sviluppati nell'ambito di un processo di interazione e di condivisione
all'interno di sottogruppi e di reti di cooperazione intersoggettiva.
Questa impostazione sta influenzando lo stesso
modello di innovazione, che non viene più visto come processo lineare che avanza
per passi ben definiti, bensì alla luce di un modello secondo il quale le idee
innovative possono provenire da diverse sorgenti e si affacciano con tanto
maggiore facilità e ricchezza quanto più queste sorgenti vengono poste in
comunicazione reciproca.
Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e
della comunicazione non a caso mira sempre più a fornire gli strumenti adatti a
favorire la cooperazione tra soggetti differenti, individuali e collettivi
proprio tramite lo scambio di informazioni, nella comunicazione. Quest'ultima
è dunque l'elemento chiave della relazione di servizio: è ciò che la trasforma
in un ciclo all'interno del quale si crea valore e, soprattutto, si pongono le
condizioni per creare valori sempre maggiori. Infatti la prestazione che
scaturisce da questa relazione e in cui essa si materializza diventa ottimale
quanto più si carica di esperienza comune, di comune sentire, quanto più, cioè,
è il risultato di uno sfondo condiviso, all'interno del quale si crea un
linguaggio comune. Non a caso uno degli obiettivi prioritari, in molte relazioni
di servizio, sia del cliente che del prestatore d'opera è di creare una
partnership che duri nel tempo: la ricerca della continuità e della
stabilità del rapporto tra prestatore d'opera e cliente è dunque uno dei
tratti caratteristici fondamentali dei processi di servizio.
Viene così ad emergere, e in modo prepotente, il
problema della convergenza tra le intelligenze, le conoscenze e le pratiche
di soggetti individuali differenti verso un quadro di premesse, orientamenti,
valori comuni e in grado di favorire una diffusa coesione sociale e una più
stabile ed efficace incidenza dei rapporti di partnership e delle relazioni di
collaborazione e di codecisione. Ciò conduce ad assumere un punto di vista
diverso rispetto a quello classico, che fa riferimento non più allo sforzo di un
singolo soggetto individuale, impegnato ad affrontare e a risolvere in
solitudine uno specifico problema, ma a processi di collaborazione e di
co-decisione tra individui diversi, che partono da premesse comuni,
concordemente accettate.
Questo “riorientamento” fa vedere non solo il
linguaggio, ma anche il pensiero come strumenti interattivi, tesi alla
costruzione di uno sfondo il più possibile condiviso tra soggetti che partono da
punti di vista magari profondamente diversi, che però operano all'interno di
“comunità di pratiche”, alla cui elaborazione stanno attualmente dando un
contributo rilevante diversi studiosi e ricercatori, che operano all’interno di
vari campi disciplinari. Quelle che oggi vengono usualmente definite le
“pratiche migliori”, infatti, e che vengono proposte come modelli da imitare e
diffondere, non possono in alcun modo svilupparsi e dispiegare le loro
potenzialità se non con riferimento concreto a una comunità nella quale si
radichino, per cui il problema dell'esistenza - o della creazione - di
soggetti collettivi coesi, caratterizzati da un’identità ben precisa, da un uso
diverso del linguaggio e da uno spiccato senso di appartenenza da parte degli
individui che ne fanno parte, diventa assolutamente centrale e cruciale.
L'attenzione va perciò concentrata in
particolare, sul “fenomeno rete”, per l’incidenza che esso può avere sulla
didattica e per le sue implicazioni organizzative, soprattutto sotto forma di
possibilità di nuove interazioni sociali, dentro e fuori la scuola, e di
apertura di quest’ultima ad altre risorse di apprendimento, come biblioteche
multimediali, musei, risorse di comunità locali, centri di ricerca e
cooperazione internazionale. Considerata da questo punto di vista la rete può
influire in forme e gradi diversi sui processi di insegnamento/apprendimento
secondo le diverse configurazione che tende ad assumere:
·
può essere vista come semplice
mezzo, che amplia a dismisura le possibilità di accesso all’informazione e
alla conoscenza e rende più facili e veloci i relativi percorsi, mettendo a
disposizione in modo praticamente illimitato archivi e fonti di documentazione.
·
può essere percepita come
luogo in cui è possibile progettare e costruire ambienti per realizzare
processi di apprendimento, alternativi rispetto a quelli usuali, e sperimentare
modelli di insegnamento che non si esauriscano nel trinomio lezione -studio
individuale - esercitazione, sostenuto dalle abituali forme di verifica
(interrogazione, compito in classe, test ecc.).
·
può infine essere assunta come
modello di un processo di insegnamento/apprendimento non riducibile al
semplice percorso di trasferimento/acquisizione di conoscenze date e come
apprendimento di regole e concetti che descrivono il mondo e la realtà
circostante. La rete induce invece a considerare la conoscenza come un
processo di costruzione collettivo, sociale, mai statica, bensì dinamica e
sempre incompleta, e a ritenere che l’unica forma di apprendimento efficace
di essa sia la partecipazione attiva a tale processo e la capacità di
uso dei risultati acquisiti, sotto forma di attitudine ad affrontare e
risolvere problemi reali.
Inteso in quest’ultima accezione, il nesso tra la rete e la didattica attribuisce una funzione centrale e preminente alla possibilità di discussione, confronto, collaborazione tra i membri di una comunità partecipe di un processo. La rete diventa così veicolo di un modello di apprendimento considerato, soprattutto, come appartenenza a una comunità, come risultato di una pratica all’interno di quest’ultima e come partecipazione al processo collettivo di costruzione della conoscenza.
2. 4. Le competenze come insieme
strutturato di conoscenze e abilità.
Ciò che caratterizza le competenze, oltre alla
trasferibilità, è quindi il fatto di costituire un sistema di conoscenze e
abilità, che esibisce una specifica organizzazione interna. Il rapporto
tra conoscenza e organizzazione è, non a caso, uno degli aspetti
che caratterizza la ricerca scientifica e tecnologica , che non è un'attività
casuale o spontanea, bensì un complesso di azioni programmato, organizzato e
realizzato in condizioni di efficienza e di efficacia caratterizzato da un
elevato grado di coordinamento e di interdipendenza. Infatti la sistematica
creazione ed applicazione delle conoscenze richiede una forte integrazione di
competenze provenienti da soggetti, individuali e collettivi, diversi ed esige
inoltre una continua e profonda revisione dell'organizzazione.
Anche la diffusione e il radicamento delle
conoscenze richiede, da sempre, l’intervento e la mediazione di strutture
sociali e culturali più o meno organizzate: la religione; la famiglia; la
rappresentazione della conoscenza e l’immagine della scienza tipiche di un
determinato periodo storico, che attraverso la diffusione dei manuali,
l'incidenza che hanno all'interno di esse i "paradigmi" tende, in ogni fase del
suo sviluppo, a fornire un modello di problemi e soluzioni accettabili da parte
di tutti coloro che praticano un certo campo di ricerca; e soprattutto, la
scuola, che costituisce la tradizione culturale, le dà forma e la perpetua,
trasmette i contenuti che ogni sistema sociale considera fondamentali; e così
via.
Oggi queste strutture sono in crisi proprio
rispetto a questa loro funzione tradizionale di fungere anche da centri di
organizzazione delle conoscenze e di selezione di quelle considerate
fondamentali: è sotto gli occhi di tutti il crescente indebolimento rispetto
alla diffusione incontrollata e indiscriminata dell’informazione. La crescente
perdita di influenza e di incidenza delle forze che presiedono alla
strutturazione del sapere è all’origine del caos informativo che oggi ci opprime
e ci soffoca da ogni lato, e all'interno del quale è sempre più difficile
trovare prescrizioni e orientamenti.
La sempre più incondizionata libertà di accesso
all'informazione da parte di tutti rischia di provocare, come inevitabile
rovescio della medaglia, la diluizione e la perdita del senso della
comunicazione. La massa dei messaggi e dei dati scambiati rende sempre più
arduo valutarne la qualità. Spesso il curioso sostituisce l'importante e, di
fronte all'ampliarsi delle possibilità, alimentato dalla velocità degli
elaboratori e dall'enorme capacità delle banche dati e degli archivi, nella
scelta finisce con l'incidere sempre di più il caso. Il surriscaldamento
informativo, allo stesso tempo causa ed effetto di una trasparenza comunicativa
totale, rischia di far perdere organicità e sistematicità alla cultura e
all'informazione e di trasformarle, in mancanza di correttivi e interventi
adeguati, in sistemi pletorici e frammentari, che è sempre più difficile
organizzare e strutturare intorno a concetti e idee di fondo e articolare in
livelli.
In questo quadro il richiamo all’esigenza di
incardinare le conoscenze e le abilità di ciascuno su competenze di base
ben definite, che le organizzino e ne facciano un insieme strutturato, acquista
un senso ben definito e imprescindibile, e acquisisce ulteriore forza e rilievo
alla luce della crescente importanza che ha, per i soggetti individuali e
collettivi, la questione dell’identità, come consapevolezza dell’appartenere
e dell’appartenersi, in quanto è fondamentale sentirsi
soggetto (individuo e persona, per il singolo, organizzazione ben strutturata al
proprio interno e con una specifica “missione”, per i gruppi e le collettività)
al fine di riuscire a dare il più possibile coesione e coerenza a queste serie.
Compito della scuola, in questo quadro, è quello
di fornire solidi punti di riferimenti che consentano di orientarsi all’interno
del flusso continuo dell'informazione. La scuola non può certo rinunciare a
porsi in una prospettiva di organizzazione del sapere e delle conoscenze, che le
porti verso “insieme strutturato", senza cui non esiste cultura.
2.5. Un nuovo modello organizzativo per
l’istituzione scolastica.
Il riferimento alle competenze, se correttamente
inteso, rimanda ad una cornice che non solo richiede, ma esige un nuovo modello
organizzativo per l’istituzione scolastica.
A spingere in questa direzione non è soltanto
l’esperienza pratica del mondo del lavoro, ma sono anche e soprattutto le
considerazioni teoriche che costituiscono l’esito della lunga e approfondita
riflessione sul modo di affrontare i problemi posti dall’irruzione, sulla scena
della scienza contemporanea, del fenomeno della complessità. Questa
riflessione aveva portato fin dalla fine degli anni Quaranta a
sottolineare l’esigenza, per chiunque voglia rappresentare i fenomeni complessi
senza comprimerli o distorcerli arbitrariamente di tenere nella massima
considerazione la potenza del concetto di organizzazione.
Il legame tra complessità e
organizzazione veniva esplicitamente posto e teorizzato in base alla
premessa che ogni forma di attività umana presuppone, comunque, preliminarmente
un intervento di tipo organizzativo, guidato dall’obiettivo che il soggetto
persegue. E siccome il soggetto che si pone di fronte alla complessità e
l’affronta generalmente non è un singolo individuo, ma un soggetto collettivo, a
sua volta caratterizzato da un’organizzazione interna e che deve essere pertanto
visto e considerato dal punto di vista di quest’ultima, l’organizzazione
costituisce il terreno in grado di unificare l’analisi relativa al soggetto
della conoscenza e quella concernente i suoi oggetti.
Se vogliamo “addomesticare” la complessità e
gestirla per servircene all’interno di un discorso che sia rigoroso e
produttivo, dobbiamo escogitare un metodo per trattarla. Trovandoci però
di fronte a un fenomeno che è in linea di principio non riducibile a una
quantità controllabile di comportamenti certi, o predeterminabili in maniera
certa, è necessario istituire una connessione sempre più stretta tra
complessità, organizzazione e progettazione. L’unico modo per
“gestire” la complessità è disporre di un metodo che ci consenta di
modellizzarla: ma questo modello, a sua volta, va costruito e “letto” nella
sua potenzialità organizzatrice. Esso cioè potrà risultare funzionale
all’obiettivo che è alla base della sua elaborazione e la giustifica (quello di
gestire e domare, in qualche modo, la complessità) se non si limita a una
“presa d’atto” della complessità percepita, ma possiede, a sua volta, la
capacità di organizzarla attraverso un progetto.
Il problema ineludibile di fronte al quale il
sistema scolastico si trova oggi sta dunque nell’esigenza di far convergere il
nesso riscontrato tra complessità, organizzazione, progettazione e l’insieme di
aspetti e necessità che si cela dietro ciascuno di questi termini, in un modello
concretamente realizzabile ed efficiente che sappia
·
impostare le relazioni interne
all’istituto in modo da dare contenuto e applicazione effettivi all’idea di
comunità scolastica e da sviluppare i processi di gruppo, sia per
quanto riguarda il team di insegnanti, sia per quel che concerne la collettività
dei discenti;
·
estendere e arricchire le
relazioni esterne, in modo da dare, anche in questo caso, contenuto e
applicazione effettivi all’idea di comunità locale, in grado di
perpetuarsi e consolidarsi attraverso una “progettazione integrata”, che veda
Regioni, Comuni e Province, Enti Locali in generale affiancarsi alle scuole
nell’elaborazione di progetti.
Il problema fondamentale che questa duplice
esigenza pone in risalto è dunque, per un verso, di non scambiare l’autonomia
con la chiusura e l’isolamento, e, per l’altro, di non confondere la necessità
di dialogo e di interazione con l’ambiente esterno con un appiattimento
indiscriminato nei confronti delle sue istanze, cosa che priverebbe il sistema
della possibilità di darsi un suo profilo specifico e di avere un’identità
precisa e ben riconoscibile.
Oggi, disponendo di un retroterra relativamente
ricco di analisi teoriche sull’autonomia delle organizzazioni abbiamo
chiaro in che senso vada inteso questo termine, e come debba essere
concretamente applicato. L’autonomia è la chiave di un discorso, nell'ambito del
quale la spiegazione di ciò che accade all’organizzazione non va ricercata tutta
o in parte preponderante nelle condizioni esterne, ma nella "morfologia
intrinseca" che la contraddistingue, cioè in come essa è costituita e funziona,
anche se le interazioni di questo tipo di sistema con elementi che stanno al di
fuori di esso innescano al suo interno delle reazioni e dei cambiamenti.
Le modificazioni strutturali che avvengono
all’interno della scuola possono essere spiegate in modo adeguato e
soddisfacente se non sono viste soltanto come risposte adattative alle
sollecitazioni ambientali, ma vengono considerate anche come l’effetto di una
dinamica di stato interna che dia conto, unitamente ai segnali e agli stimoli
recepiti dall’esterno, del cambiamento strutturale verificatosi.
La teoria dei sistemi autopoietici ( che
sono in grado di conservare e riprodurre la propria organizzazione interna) ha
avuto il merito di evidenziare l’importanza fondamentale proprio del concetto di
organizzazione come vincolo inderogabile, nel senso che un mutamento di
quest’ultima comporterebbe il collasso del sistema o, quanto meno, lo
stravolgimento della sua natura e della sua identità, che sono ad essa
indissolubilmente associate. Bisogna allora chiedersi: "quali sono i processi
intrinseci che sono in grado di conferire, contemporaneamente, al sistema
stabilità e resistenza alle perturbazioni e plasticità, cioè flessibilità
strutturale, così da metterlo in condizione di mutare di continuo pur
mantenendo una propria identità riconoscibile"?
Se si vuole dare un senso preciso all’autonomia
del sistema scolastico nazionale e alle istituzioni in cui si articola occorre
dunque impostare un modello organizzativo che consenta di fare in modo
che obiettivi e finalità esterne (ad esempio, quelle del mondo del lavoro
o del sistema economico e produttivo) possano venire acquisite, purché il
sistema delle relazioni esterne, derivanti dai flussi di interscambio con
l’ambiente di riferimento, venga trattato in modo conforme all’esigenza di dare
organicità, coerenza e stabilità al complesso delle relazioni interne. E’ questo
il nodo problematico che finora il sistema scolastico non è riuscito non dico a
risolvere, ma neppure ad affrontare convenientemente sul piano teorico.
L’altra grande fonte di possibili equivoci e
contrasti che va eliminata è quella tra l’autonomia e l’auto-organizzazione
delle singole unità del sistema scolastico, che vanno ribadite e rafforzate e la
rivendicazione, da parte del MIUR, delle necessarie forme di indirizzo e di
controllo. La soluzione di questo problema richiede la messa a punto di un
sistema decisionale multilaterale che individui, senza possibilità
di equivoco, i rispettivi ambiti di azione attraverso una decisa
differenziazione tra i livelli di “decisioni strategiche” e di “decisioni
operative”. Le prime, avendo la funzione di definire i criteri e le regole per
l’assunzione delle seconde, debbono configurarsi come metadecisioni, o
decisioni di secondo livello, il cui contenuto non può essere mai una decisione
diretta ( e tanto meno una prescrizione) su un comportamento operativo, bensì
un’indicazione o decisione su come decidere o valutare (i comportamenti
operativi).
La decisione strategica, in altri termini, deve
mirare, attraverso forme di coordinamento organizzativo, a far emergere e a
consolidare un quadro di premesse comuni e uno sfondo condiviso, condizioni
necessarie per far sì che ciascuna delle parti componenti possa attingere al
patrimonio conoscitivo collettivo e contribuire, a sua volta, alla diffusione
del sapere nel sistema. Ciò che il centro deve fare è dunque sostenere
l’attività decisionale delle unità periferiche garantendo, come infrastruttura
di comunicazione e interazione, la disponibilità di un linguaggio strategico che
parli, in particolare, di fini, valori, criteri di valutazione, giudizi di
scenario, attivi una comunicazione policentrica e multidirezionale delle unità
fra di loro e con l’esterno.
L’obiettivo del Ministero dovrà pertanto essere
quello di costruire un vero e proprio sistema reticolare-relazionale interno
di soggetti che compiono scelte, assumono decisioni, attivano scambi e
interazioni facendo costante riferimento sia alle loro problematiche interne e
locali, sia a un orizzonte più vasto e comprensivo, costantemente alimentato da
un processo di attivazione e regolazione della comunicazione. La coerenza
interna del sistema, in questo modo, viene garantita non dalla comune dipendenza
delle parti dallo stesso centro di potere, ma dalla mediazione comunicativa
e dalla comunanza del linguaggio, che si dispiega concretamente in tutta la
sua efficacia, anche sul piano organizzativo, grazie alle reti.
Per quanto riguarda lo specifico modello
organizzativo dell’istituto, se si vuole garantire un’ordinata ed efficiente
gestione delle risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili occorre
riferirsi a una genuina cultura della progettualità e a una logica
autenticamente programmatoria di scelte e di valori. Il primo passo da
compiere è quello di abbandonare il riferimento esclusivo a prestazioni,
mansioni o compiti, che caratterizza l’attuale, imperante, orientamento
all’adempimento, in favore di un alternativo orientamento al risultato
che faccia perno su un costante ed effettivo confronto tra risultati attesi
(rigorosamente specificati) e performance effettive.
Diventa così possibile, in primo luogo, perseguire
e realizzare concretamente quell’importante presupposto di razionalità
organizzativa, che consiste nel monitoraggio continuo e nell’autovalutazione
della propria attività, e, in secondo luogo, responsabilizzare, di conseguenza,
i soggetti umani che, a vario titolo, concorrono allo svolgimento di quest’ultima,
rendendo possibile il momento successivo della valutazione dall'esterno.
3. I punti nodali
Partendo da questi presupposti, così
schematicamente presentati, abbiamo lavorato per individuare alcune priorità su
cui lavorare per trovare punti di accordo e strategie realistiche comuni. Le
elenchiamo di seguito, sviluppando nella terza parte di questo lavoro alcuni di
temi che ci sembrano più importanti.
1.
Il concetto di "scuola dell'obbligo", che ha una sua forte connotazione
storica e pedagogica, non va certo rinnegato, ma è oggi insufficiente ad
indicare il conseguimento di un livello di istruzione e di formazione adeguato
ai bisogni di una persona che vive consapevolmente nella nostra società, anche
perché oggi la conclusione della scuola dell'obbligo non sembra garantire questo
livello minimo. Noi siamo favorevoli a includere il concetto di scuola
dell’obbligo nella dizione "diritto - dovere all'istruzione e alla formazione",
reinterpretando il diritto costituzionale all’istruzione alla luce dei tempi e
dell’evoluzione della scienza e della tecnologia, e sviluppando un sistema
concreto di norme (a cui peraltro si lavora già da tempo) che persegua
l’obiettivo del successo formativo per tutti i giovani. Dal momento che la legge
delega introduce nel sistema elementi di flessibilità pare più sensato fissare
l'obiettivo da raggiungere (12 anni di istruzione e formazione per tutti o
comunque fino all’ottenimento di una qualifica) che non l'età. Le potenzialità
di sviluppo positivo dell'intuizione della riforma precedente (passaggio dal
solo obbligo scolastico all'obbligo formativo) non sono state ben capite, anche
perché - per forza di cose - non vi hanno fatto seguito provvedimenti coerenti,
chiari e concreti. Nel caso probabile che nemmeno oggi questo fosse
immediatamente possibile, potrebbe essere utile un piano a medio termine di
sperimentazione diffusa, con chiari obiettivi, tempi e funzioni. Inoltre, sia
il governo che l'opposizione sono parsi in qualche modo condizionati da uno
status quo consolidato e difficile da trasformare sul piano della cultura e su
quello dell'organizzazione.
2.
Nell'acquisito processo di valorizzazione del percorso di istruzione e
formazione professionale, non c'è spazio per una concezione riduttiva della
formazione professionale, intesa come destinata ai ragazzi che "non ce la
fanno". Qualsiasi livello dell'istruzione e formazione professionale (di due,
tre, quattro, cinque o più anni) va considerato come diverso ma non inferiore
rispetto all'istruzione generale liceale prima e universitaria dopo, e deve
essere in grado di garantire una solida formazione di base. A questo scopo, da
subito si moltiplichino le situazioni di eccellenza nel sistema dell’istruzione
e formazione professionale, con massicci investimenti (le scuole più belle, gli
insegnanti più capaci e meglio pagati, gli accordi di programma territoriali più
vantaggiosi e ricchi). In prospettiva, e con il consolidamento dell'istruzione e
formazione professionale superiore, non sembra impossibile pensare ad uno
spostamento di tutto il settore tecnologico in un unico percorso, articolato al
suo interno.
3.
Nel rinforzare l'insistenza sul successo formativo, bisogna spostare
l'attenzione sul 30% di giovani che non arriva a conseguire un titolo superiore
all'obbligo: i veri destinatari del cambiamento sono innanzitutto i giovani che
attualmente stanno fuori dal sistema educativo, e immediatamente dopo quelli che
stanno dentro, a cui si devono fare proposte valide. A questo scopo riteniamo
essenziale valorizzare le esperienze di orientamento, senza concentrare tutto
nel solo luogo in cui i ragazzi sono per forza costretti a stare, ma potenziando
l'interazione con la comunità in cui vivono, ristretta ed allargata.
4.
L’organizzazione del lavoro in ogni parte del sistema educativo va
modificata:
·
introducendo massicciamente le
tecnologie dell'informazione
·
incentivando i metodi che consentono
il superamento della lezione frontale e fanno centro sull’apprendimento motivato
·
riformando i piani di studio con una
più decisa sottolineatura del principio “insegnare ad apprendere”
·
affrontando la questione delle
diverse "educazioni", sia opponendosi alla richiesta che la scuola risolva ogni
problema e faccia di tutto un po', con il chiaro rischio di un sovraccarico
funzionale, sia tenendo presente che alcune tematiche fondamentali non possono
essere tralasciate e devono essere comuni a tutti: ad esempio l'ambiente, la
salute, l'educazione alla cittadinanza, che non sono "materie" e non devono
diventarlo
·
valorizzando il ruolo della scuola
nella trasmissione di competenze non cognitive.
5.
E' necessario affrontare in modo organico la "questione docente", dal
punto di vista della formazione permanente e in servizio, della carriera, del
reclutamento e del rapporto con le scuole, accompagnato da serie stime
quantitative, da un programma di riconversione, ma anche di incentivazione dei
giovani. Il collegamento con la scuola da un lato, e con le università
dall'altro, non può e non deve più essere approssimativo e casuale.
6.
E' necessario affrontare e risolvere il problema dei livelli intermedi,
dal duplice punto di vista del ruolo che assumono i livelli regionali
(Direzioni regionali, IRRE) nella triangolazione fra scuole, territorio e Stato,
e delle funzioni centrali di supporto all'innovazione svolte negli enti
nazionali (la valutazione nell'Invalsi, la formazione e la ricerca nell'
Indire). Anche il tema del sistema informativo può essere compreso sotto questa
dizione, e riguarda pure la valorizzazione e la diffusione delle buone pratiche
realizzate nelle scuole e nelle reti di scuole.
7.
Infine, è necessario sviluppare le premesse contenute nella legge 62/2000
sulla parità scolastica, facendo crescere il sistema nazionale dell'istruzione
e della formazione composto di scuole autonome e scuole paritarie, in una
prospettiva di valorizzazione del capitale sociale del territorio e delle
famiglie.
3.1 Istruzione e formazione professionale
1 - Una riflessione introduttiva - Per intendere correttamente il senso e le caratteristiche del ciclo secondario e la sua distinzione in due percorsi occorre considerare la legge 53/2003 nella continuità di un cammino legislativo che ha avuto nella riforma del titolo V della Costituzione il suo atto più rilevante.
La valenza di questa norma è di enorme interesse perché, specie in riferimento al ciclo secondario, supera la tradizionale distinzione, presente nell’originario linguaggio della Costituzione, tra “scuola”, da un lato, e “istruzione artigiana e professionale” dall’altro, una forma di classificazione che rifletteva una impostazione culturale elitaria e discriminante dal punto di vista culturale e sociale, proponendo di contro una nuova classificazione dell’offerta definita da due entità:
·
da un lato la “istruzione” che
corrisponde all’istruzione inferiore ed alla componente non professionalizzante
dell’istruzione superiore;
·
dall’altro la “istruzione e
formazione professionale” (istituti tecnici, istituti professionali, ma pure i
centri di formazione professionale regionale).
Si tratta di un cambiamento profondo che consente
di delineare un ambito di intervento regionale a carattere esclusivo, che
comprende le attività relative al diritto-dovere di istruzione e formazione (per
12 anni di studi) comprendendo pure la formazione superiore. Tale disegno è
completato dalla legge 53/03 attraverso la definizione di un “sistema
educativo di istruzione e di formazione” dal carattere fortemente
promozionale e basato sulla personalizzazione dei percorsi formativi, avente il
fine di “favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana, nel
rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di
ciascuno e delle scelte educative della famiglia, nel quadro della cooperazione
tra scuola e genitori, in coerenza con il principio di autonomia delle
istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla Costituzione” (art.
1).
Ciò è connesso peraltro all’assorbimento dei
concetti di obbligo scolastico e di obbligo formativo entro la nozione di
diritto-dovere all'istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o,
comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno
di età.
E’ in questo quadro che risulta fondamentale la
presenza nel secondo ciclo di due percorsi distinti, il percorso dei
licei e il percorso degli istituti dell’istruzione e della formazione
professionale, quest’ultimo dotato di natura pedagogica, identità
curricolare e fisionomia istituzionale, abilitato a rilasciare titoli di studio
progressivi corrispondenti a standard concertati e riconosciuti in sede
nazionale, in grado di offrire un percorso graduale e continuo di pari dignità
culturale ed educativa rispetto al percorso liceale.
Il disegno complessivo che ne emerge evidenzia un
salto di qualità rispetto alla realtà esistente, che segnala l’avvio di un
processo di riforma impegnativo, connotato da diversi punti oscuri (ad esempio
la questione delle risorse), certamente di non facile assimilazione da parte di
attori che hanno visto nel tempo diversi progetti riformatori falliti prima
ancora di essere approvati e che di fronte a tale quadro possono esprimere
scetticismo frammisto ad una sorta di fatalità.
Ciò corrisponde anche alle indicazioni provenienti
da più parti affinché vi sia una specifica attenzione ai percorsi di istruzione
e formazione professionale quale componente rilevante, di pari dignità rispetto
ai licei, in direzione di un sistema in grado di valorizzare le risorse umane,
innalzare i livelli di conoscenze e competenze innovative, così da poter
adeguatamente rispondere alla sfida economica e tecnologica posta dalla
globalizzazione. Ma non si tratta soltanto di una prospettiva economicistica:
occorre dotare le persone di una moderna cultura in grado di superare la visione
illuministica dell’enciclopedismo e della “testa piena” di nozioni, per una
nuova concezione che mira piuttosto ad una persona dalla “testa ben fatta” in
grado di cogliere le connessioni tra saperi, di porsi di fronte alla realtà in
una prospettiva attiva, in grado di apprendere continuamente e creativamente
dall’esperienza.
2. Natura dei due percorsi - Il riferimento al nuovo titolo V della Costituzione consente pertanto di delineare un sistema di istruzione e formazione professionale sulla base di una nuova classificazione dell’offerta definita da una ripartizione non più basata sulla univocità del concetto di “scuola”, e neppure sul concetto di “ciclo formativo di base” (che non corrisponde più al vecchio concetto di “obbligo di istruzione” ma è oramai di 12 anni, da considerare comprensivo dell’istruzione e formazione professionale), bensì sul criterio che sottende il carattere dei percorsi, così definiti:
·
percorsi a carattere di “istruzione”
nel senso che forniscono allo studente una visione culturale generale in forza
della quale egli può successivamente completare gli studi in sede universitaria
o di formazione superiore, i cui titoli rilasciati non si riferiscono a profili
presenti nel mondo del lavoro;
·
percorsi a carattere
“professionalizzante”, ovvero che mirano a dotare la persona di requisiti di
competenza tali da consentirle di acquisire titoli coerenti con profili
corrispondenti a ruoli effettivamente riconosciuti nel mondo del lavoro.
I due percorsi si innestano su di una fase di
scolarità comune a tutti: il primo ciclo, che, nel disegno della legge 53/2003,
comprende la scuola primaria della durata di cinque anni e la scuola secondaria
di primo grado della durata di tre anni. Il fatto che i percorsi a carattere
professionalizzante siano di competenza esclusiva delle Regioni e delle Province
autonome si spiega a partire dalla caratterizzazione territoriale del mercato
del lavoro e quindi dall'individuazione della Regione come soggetto in grado di
programmare l’offerta formativa professionaliz-zante in modo più puntuale e
coerente con le caratteristiche locali.
Naturalmente, questa programmazione dovrà essere
coerente con il profilo in uscita delineato da documenti nazionali di
orientamento che indichino quali esiti educativi ci si aspetta di ottenere al
termine del ciclo di riferimento, e che, relativamente alla formazione
secondaria, forniscano misure capaci di garantire:
·
la corenza interna e la
confrontabilità dei titoli e delle qualifiche professionali di differente
livello
·
la spendibilità su tutto il
territorio nazionale dei titoli professionali conseguiti
·
i passaggi tra i percorsi della
formazione e tra questi e i percorsi della scuola.
La programmazione dovrà inoltre:
·
garantire che i titoli e le
qualifiche professionali di differente livello siano coerenti con gli obiettivi
specifici di apprendimento e quindi confrontabili tra di loro
·
assicurare la spendibilità nazionale
dei titoli professionali conseguiti all'esito dei percorsi formativi,
·
assicurare eventuali passaggi entro
i percorsi formativi e tra questi ed i percorsi scolastici, e viceversa.
Non si tratta di una questione formale, ma
dell’effettiva risposta al diritto di istruzione e formazione che appartiene ad
ogni cittadino e che si giustifica alla luce del principio di equità e di
giustizia educativa.
Occorre prendere sul serio queste affermazioni
contenute nella legge, evitando di trattare tale materia con categorie
ideologiche che non aiutano l’attenta lettura e comprensione del testo, dal
quale emerge un disegno di ampio valore sociale. Rispetto ad esso, occorre
piuttosto incalzare il Governo affinché passi davvero dalle parole ai fatti,
specie per ciò che concerne la questione delle risorse e della volontà politica
nell’affrontare i veri nodi della riforma.
3. Cogliere l’occasione -
La discussione sul rapporto fra istruzione e
formazione, su una moderna istruzione e formazione professionale, sulla
realizzazione del diritto-dovere di istruzione e formazione, deve iniziare dalla
consapevolezza dei cambiamenti intervenuti e in corso nel rapporto fra stato
nazionale e regioni così come sono stati definiti dalla riforma costituzionale
del 2001 e come verranno precisati dalle ulteriori modifiche di cui si sta
occupando il parlamento.
Tali cambiamenti comportano, irreversibilmente,
l’attribuzione alle regioni di poteri reali in ordine alla organizzazione
scolastica e alla gestione degli istituti scolastici e di formazione. Tale
attribuzione, che ovviamente richiederà tempo per essere completata, non lascia
più spazio alle discussioni bizantine che hanno animato i confronti
sull’interpretazione della costituzione e sulla realizzazione dell’obbligo
scolastico.
Il sistema dell’istruzione e formazione
professionale, similmente al sistema dei licei, presenta un carattere educativo
e di pari dignità culturale; non è assimilabile assolutamente alla prospettiva
addestrativa tipica della impostazione elaborata dal fascismo fra il 1927 ed il
1939 ed ereditata in buona sostanza dalla Repubblica. Ciò disegna un quadro
totalmente inconsueto rispetto all’esistente, tanto da rendere inservibili
espressioni come “formazione professionale”, “istruzione professionale” o
“istruzione tecnica” che non indicano più oggetti giuridici ed organizzativi ben
delineati a fronte di un quadro normativo radicalmente ridisegnato dal combinato
della nuova Costituzione e dalla legge 53/2003. Ma, a ben vedere, anche
l’espressione “liceo” risulta ambivalente e necessita di una nuova definizione
specie per ciò che concerne il venir meno di una gerarchizzazione culturale ed
anche sociale che va decisamente superata.
Occorre affrontare questo quadro in trasformazione
– ed in particolare l’elaborazione dei decreti attuativi della legge 53/2003 –
alla luce di una visione generale della natura dei percorsi di istruzione e
formazione professionale, andando oltre la “linea del fuoco” rappresentata dai
tentativi provenienti da più parti di far prevalere sull’interesse generale i
più diversi e contrastanti interessi esistenti all’interno del mondo della
scuola e della formazione.
Tali tentativi hanno prodotto soprattutto
l’indicazione degli otto licei con relativi preannunciati indirizzi, che
sembrano configurare un quadro di sostanziale conferma della situazione attuale,
solo con una diversa insegna sul portone . Ci sembra opportuno evitare la
proliferazione degli indirizzi, soprattutto per quei licei, come il tecnologico,
l’economico e l'artistico, in cui si corre il rischio di non cogliere
l'alternativa all'insegnamento ex cathedra offerta dal nuovo sistema
della formazione e dell'istruzione professionale, adeguatamente riqualificato in
tempi che saranno, probabilmente, medio-lunghi, e a partire da quelle regioni
che già da tempo stanno producendo esperienze di livello europeo. E'
necessario operare trasformazioni graduali, ma avendo ben chiaro l'obiettivo
finale, che è quello di evitare l’ulteriore degrado di entrambi i sistemi di
istruzione e di formazione, con il perdurare di tassi di inefficacia altissimi.
Se così fosse, il mancato avvio anche in questa
legislatura di una credibile inversione di tendenza su questi punti consegnerà
poi a chi nella prossima avrà la responsabilità di governare o la necessità di
proseguire sulla stessa strada se vi fosse un mantenimento dell’attuale quadro
politico, o una voglia di ribaltare nuovamente tutto se vi sarà un quadro
differente. Che cambi o meno la maggioranza, rimarrebbe un quadro
sostanzialmente immutato, a parte il numero di anni perduto. E’ in gioco il bene
non di una parte politica, ma dei nostri giovani e con loro dell’intero Paese.
La riforma del sistema educativo, che in una prospettiva organica aspettiamo da
sessant'anni, non può essere ulteriormente rinviata né per motivi di
schieramento politico, né assecondando gli interessi di una delle parti in gioco
che, necessariamente, nel processo riformatore avverte il pericolo di una
perdita di potere o di sicurezza.
E’ questo il motivo per cui, a nostro avviso,
occorre cercare di cogliere l’occasione rappresentata dalla messa a punto dei
decreti attuativi della L. 53/2003 e avanzare delle proposte ispirate anzitutto
al principio di realtà, ma non per questo con obiettivi di basso profilo.
4. Una questione di democrazia -
La normativa che si va delineando crea una decisa
cesura specie in riferimento alla particolare arretratezza culturale del
sistema formativo italiano, data dalla tendenza a concepire “cultura” solo ciò
che viene fornito dalla scuola, mentre ogni riferimento al lavoro è visto al più
come “pratica” attribuendo a tale termine tutto il significato svalutante che si
può intuire dall’espressione utilizzata. Questa arretratezza è una delle cause
delle scarse performance del sistema italiano se comparato a quello dei
Paesi con cui ci confrontiamo sul piano istituzionale, sociale ed economico, ed
in particolare della grave piaga dell’ “insuccesso formativo” che porta ad avere
oltre il 30% dei giovani diciannovenni senza alcun titolo né qualifica
professionale, mentre circa il 55% degli adulti svolge attività lavorative
lontane dal percorso di studio completato.
Da un lato si tratta di una questione economica.
E’ infatti indubbia la conseguenza di una concezione gerarchica e selettiva
della scuola italiana. Essa è all’origine da un lato del processo di
‘licealizzazione’ degli istituti tecnici e professionali, e dall’altro di una
endemica carenza di tecnici e di quadri colti e ben qualificati di cui soffre in
maniera sempre più preoccupante la struttura produttiva del nostro Paese.
Ma si tratta soprattutto di una questione
democratica, connessa ai diritti dei cittadini ed in definitiva alla dignità
di ogni persona che si immette nel sistema formativo. I diritti formativi
rappresentano la possibilità concreta da parte di ogni persona di accedere a
servizi che consentano di accrescere il proprio valore sociale in modo coerente
con le proprie caratteristiche e volontà, al fine di inserirsi in modo
soddisfacente nella realtà sociale ed economica:
· il diritto di usufruire di un vero servizio di orientamento. Infatti, le capacità orientative non sono innate; esse vanno sostenute e potenziate attraverso interventi ad hoc. Ciò significa delineare un dispositivo di orientamento aperto, flessibile, cooperativo, basato sul principio di personalizzazione, reciprocità, prevenzione ed accompagnamento;
· il diritto alla scelta fra opzioni alternative ed equivalenti. La possibilità di scelta – dopo il primo ciclo - fra il percorso liceale e quello di istruzione e formazione professionale deve essere effettiva, ovvero occorre che le diverse opzioni siano presenti nei diversi territori ed accessibili. Ciò richiede percorsi differenti pur se equivalenti, evitando pertanto modelli ibridi che in realtà finiscono per creare un unico percorso che non soddisfa di fatto appieno nessuno degli utenti;
· il diritto a veder riconosciuto il proprio bagaglio personale. Ogni persona, all’inizio di un percorso, è portatrice di un bagaglio di apprendimenti (capacità, conoscenze, abilità, competenze) che deve essere portato alla luce, riconosciuto e valorizzato. Ciò si traduce quindi in “crediti” corrispondenti che la persona può far valere entro un piano formativo effettivamente personalizzato;
· il diritto alla continuità formativa. Ogni cammino formativo deve poter essere aperto a sviluppi successivi, potenzialmente fino ai livelli più elevati. In particolare, deve essere consentito a tutti – sia nella fase iniziale della propria vita sia nell’età adulta (anche in costanza di rapporto di lavoro) di poter accedere ad un percorso che apra la possibilità di giungere fino ai livelli più elevati di competenza;
· il diritto alla reversibilità delle scelte. Ogni persona che ha intrapreso un percorso (Liceo, Istituto di istruzione e formazione professionale, apprendistato) ha il diritto, oltre che di proseguirlo fino alla fine, di interromperlo e di passare in un altro senza per questo dover “ricominciare da capo”. Con il meccanismo dei passaggi adeguatamente sostenuti, si potranno disegnare ingressi intermedi che consentono di valorizzare il cammino svolto e di raggiungere i nuovi obiettivi.
A fronte di tali diritti di tutti i cittadini,
occorre riconoscere la necessità di superare finalmente la logica gerarchica e
selettiva del nostro sistema nel quale, talvolta appoggiandosi sulle strutture e
sul know how dei gloriosi istituti tecnici e dei non meno qualificati
istituti professionali, si tende a giustificare una tendenza conservatrice che
rinuncia ad incidere sugli elevati tassi di dispersione e sulla logica che
impone ai giovani discriminazioni dovute al ceto di appartenenza ed al capitale
sociale e culturale. Garantire a tutti, nessuno escluso, la possibilità di
scegliere il proprio percorso a partire dal progetto personale, di ottenere un
sostegno adeguato alla trasformazione delle proprie potenzialità in competenze,
rappresenta un dovere proprio di una democrazia adulta che considera
l’istruzione e la formazione strumenti di servizio e non di sanzione sociale.
5. Per un moderno sistema di istituti di
istruzione e formazione professionale
Nella prospettiva di una riforma di tutti e per tutti, si propongono alcuni
criteri ispiratori delle scelte applicative del sistema disegnato dalla nuova
normativa.
a) Il primo criterio ispiratore, in questo quadro,
è quello di prendere estremamente sul serio la nuova definizione dei poteri
fra Stato e Regioni. Se a queste ultime deve andare l’organizzazione
scolastica e la gestione degli istituti scolastici e di formazione (salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche), la programmazione dell’offerta
formativa deve essere realmente affidata a loro definendo sulla base delle
esigenze censite sul territorio quantità e natura delle istituzioni scolastiche
e formative. Non si tratta di discutere se trasferire alle Regioni gli istituti
professionali, una parte di essi, una parte dei tecnici o quant’altro. Le
Regioni devono vedersi affidare tutte le istituzioni scolastiche e formative e,
sulla base delle norme generali che per tutte devono venire dallo Stato,
organizzarle e gestirle. Ma tale affidamento deve operare nella logica della
sussidiarietà e, quindi, dell’autonomia delle istituzioni scolastiche; di
conseguenza, occorre creare le condizioni per cui titolari del rapporto di
lavoro debbono essere progressivamente i dirigenti scolastici e formativi, in
modo tale da consentire un reale sviluppo di organismi di istruzione e
formazione moderni, organici, dotati di capacità strategica e della necessaria
responsabilità nell’indirizzo e nella gestione delle risorse, comprese quelle
umane.
b) In secondo luogo, va dedicata una forte
attenzione alla caratterizzazione dei due percorsi ed in particolare alla
qualificazione del sistema degli istituti di istruzione e di formazione
professionale. Ciò richiede da un lato, come si è detto, di non moltiplicare gli
indirizzi nel sistema dei licei, poiché da questo deriverebbe una sorta di
sdoppiamento della medesima offerta formativa, e dall'altro di sviluppare un
progetto didattico e culturale che valorizzi lo specifico dei due sistemi
rendendo possibile un effettivo salto di qualità generale.
Occorre in altri termini irrobustire sul piano quantitativo e qualitativo il
sistema dell’istruzione e della formazione professionale, caratterizzandolo per
grandi aggregazioni connesse alla mappa delle più rilevanti “comunità
professionali” ed evitando sia la tendenza alla eccessiva specializzazione dei
profili professionali sia la creazione di un dualismo tra le cosiddette “cultura
generale” e “cultura specialistica”, optando invece per una vera e propria
cultura del lavoro e della professionalità. Occorre assicurare per un verso ai
giovani di poter scegliere davvero tra due offerte formative equivalenti, ed in
secondo luogo di poter contare con altrettanta certezza su un efficace sistema
che assicuri e garantisca, come peraltro scritto nella legge 53/2003, i
passaggi tra i due sistemi e verso l’istruzione e formazione superiore e
l’università. Ciò renderebbe di fatto superata l’obiezione circa la
canalizzazione precoce, e consentirebbe peraltro di sviluppare effettivamente
proposte educative e culturali di pari dignità che consentono a ciascuno
potenzialmente di accedere ai diversi livelli dell’offerta formativa
complessiva.
c) Dai due criteri esposti ne deriva un terzo,
ovvero la necessità di evitare di trasferire nel nuovo quadro le attuali
strutture che erogano formazione con lievi modifiche superficiali, scegliendo
decisamente la strada della costruzione di un nuovo quadro del sistema
educativo complessivo basato su una chiara programmazione e su una
precisa scansione di responsabilità e di tempi. Crediamo necessario a tale
proposito incalzare il governo nazionale nel disegnare un passaggio ai decreti
applicativi alla luce di una prospettiva univoca, che raccolga il necessario
consenso ma evitando di concedere pezzi della riforma ai vari poteri oggi
mobilitati in una logica di mera garanzia della conservazione dell’esistente. Da
parte loro, le Regioni dovrebbero evitare di ridursi a trascrivere l’offerta
formativa esistente, per scegliere più opportunamente la strada della
formulazione di criteri di razionalità e di coerenza in relazione alle
principali tendenze dello sviluppo del proprio territorio, per poi delineare i
requisiti di un cambiamento cui nessuno dovrebbe sottrarsi.
d) In particolare, i percorsi del sistema
dell’istruzione e formazione professionale, per essere effettivamente
credibili come alternativa ai percorsi liceali, devono poter contare su risorse
adeguate ma soprattutto non avere duplicazioni nei percorsi liceali. La
formazione cioè deve poter contare su percorsi di sistema, quindi strutturali e
non contingenti, che consentano sia l’acquisizione di competenze immediatamente
spendibili sul mercato del lavoro, sia l’acquisizione di competenze utilizzabili
in percorsi ulteriori di istruzione e formazione professionale superiore, o
anche nell'università. In questo senso essi possono essere triennali e
quadriennali, ma anche di cinque, sei e sette anni. Essi debbono poi garantire
con appositi interventi eventuali passaggi dentro il sistema e tra questo e
quello liceale. Inoltre, con un anno integrativo dopo il quadriennio di
istruzione e formazione professionale, tali percorsi dovranno consentire anche
l’accesso agli esami di stato liceali e, quindi, il proseguimento in università.
Un percorso, perciò, di formazione della persona umana, che valorizzi il lavoro
e le professioni, caratterizzato non dalla incomunicabilità con altri percorsi
ed altri sbocchi, ma al contrario dalla sua qualità intrinseca largamente
maturata dalla attuale esperienza delle filiere tecniche e professionali che
oggi sono innaturalmente confinati all’interno del sistema di istruzione.
e) Occorre ricordare che il sistema si costruisce
dal basso, ovvero convincendo i giovani e le rispettive famiglie circa la
validità dell’offerta, ma anche dall’alto, disegnando un sistema di offerta che
sia effettivamente in grado di sviluppare una strategia di qualità, in
riferimento particolare alla formazione superiore. Ciò esige di
delineare, nell’ambito dei territori regionali e provinciali, una mappa
dell’offerta formativa che, traguardando le specifiche vocazioni del sistema
economico, preveda un disegno di percorsi organici, completi, orientati
all’eccellenza formativa, nell’ambito di intese esplicite e reciproche da un
lato con l'università, dall'altro con le imprese, i sindacati e le loro
associazioni, a partire dalle esperienze di lettura dei fabbisogni maturate
negli ultimi anni. . Ciò consente di sviluppare un’offerta formativa che, come
si accennava sopra, potrà giungere anche a cinque, sei e sette anni, in coerenza
con le necessità espresse dai soggetti delle comunità professionali interessate.
f) Va perseguita una pedagogia della
personalizzazione, sulla base del criterio metodologico fondamentale della
centralità dell’allievo e del suo successo formativo, al fine di
assicurare ai giovani una proposta formativa dal carattere educativo, culturale
e professionale che preveda risposte molteplici alle loro esigenze, in modo che
ogni utente possa trasformare le proprie capacità – attitudini, atteggiamenti,
risorse, vocazione – in vere e proprie competenze. Ciò richiede una metodologia
formativa basata sulla didattica attiva e sull’apprendimento dall’esperienza,
ovvero su compiti reali, anche - a partire dai 15 anni di età - tramite
l’alternanza scuola-lavoro in stretta collaborazione con le imprese di
riferimento, ciò anche nel percorso liceale. Ne risulterà quindi concorrente,
quando non prevalente la didattica di laboratorio rispetto a quella di aula. I
percorsi dovranno avere inoltre una rilevanza orientativa, in modo da sviluppare
nella persona la consapevolezza circa le proprie prerogative, il progetto
personale, il percorso intrapreso, le opportunità aperte.
g) Occorre cogliere l’occasione offerta dalla
modalità dell’alternanza scuola-lavoro per porre al sistema delle imprese
una sfida che, sulla scorta del modello europeo, rappresenta al tempo stesso una
possibilità di valorizzazione del suo potenziale formativo e di sviluppo degli
investimenti in ricerca e formazione delle risorse umane. Nell'alternanza,
correttamente intesa, i momenti in azienda assumono il carattere di vere e
proprie occasioni di apprendimento e acquisizione di competenze, conoscenze e
abilità, con l’ausilio di piani formativi personalizzati. Per raggiungere questi
obiettivi, è necessaria una relazione consapevole e sistematica tra le imprese e
le organizzazioni che le rappresentano, e gli organismi di istruzione e di
formazione, soprattutto in ambito locale. Questa collaborazione richiede però
l'accelerazione di un cambiamento culturale, del resto già in atto da tempo, per
cui da un lato il mondo della formazione faccia definitivamente cadere alcuni
datati pregiudizi verso il sistema delle imprese, e dall'altro le imprese, che
da tempo si dichiarano favorevoli all'alternanza e premono perché sia introdotta
nella normativa, accettano di farsi carico, insieme alla comunità locali e alle
agenzie formative, di un impegno rilevante, che richiede una disponibilità nuova
ed un investimento non tanto economico quanto nel tempo e nelle risorse.
h) Vanno sviluppate ulteriori iniziative in grado
di assicurare il successo formativo anche a persone che si pongono in situazioni
problematiche, con tre finalità: recuperare e sviluppare l’apprendimento
in discipline e attività previste nel piano di studi degli istituti di
istruzione; consentire il passaggio da un percorso all'altro; sviluppare
interventi mirati di riorientamento, arric-chimento delle competenze
professionali, accompagnamento all’inserimento lavorativo con un sostegno
formativo ad hoc. Sorge pertanto la necessità di dotare il sistema di una
serie di opportunità ulteriori che non sono da intendere come alternative ai
percorsi lunghi strutturati (cinque anni nei licei, da tre a sette
nell'istruzione e formazione professionale) e neppure come un ritorno alla
visione “assistenziale” di una parte del sistema nei confronti dell’altra parte,
ma consistono in elementi di flessibilità della istruzione e formazione
professionale in corrispondenza di particolari tipologie o situazioni
dell’utenza.
i) In questo senso, va assicurata ai giovani
un’offerta integrale che renda possibile una prospettiva formativa aperta,
flessibile, centrata sulle persone, in grado di creare circolarità tra
formazione iniziale e formazione lungo tutto il corso della vita, in una logica
che coinvolga i diversi soggetti della vita civile, sociale ed economica. Per
fare ciò è necessario impegnarsi affinché il sistema che si va creando sia
completo in senso verticale (fino alla formazione superiore) ed orizzontale
(orientamento, alternanza, formazione in servizio, educazione e formazione
permanente, percorsi individualizzati di recupero). La prospettiva su cui
operare è quella non già autocentrata sull’Istituto, quanto quella della rete
formativa che richiede uno stile di autentica cooperazione tra diversi
soggetti in un disegno di sistema unitario. In questo momento il destino di ogni
struttura è strettamente legato a quello degli altri Istituti di istruzione e
formazione professionale, delle Regioni e di tutti coloro che operano nel
sistema. La soluzione organizzativa preferibile è quella aperta, flessibile, che
riconosca il contributo altrui e lo valorizzi in un disegno nello stesso tempo
educativo e sociale.
l) Una scelta simile comporta due conseguenze
importantissime: la messa a punto di un percorso di orientamento interno
al primo ciclo di istruzione e parallelo agli anni del secondo ciclo e
l’attivazione di strutture di monitoraggio operanti sul territorio per
incrociare i fabbisogni del mercato e le aspirazioni dei giovani e delle
famiglie. Ambedue le azioni richiedono la responsabilità delle Regioni e nel
contempo la creazione di reti di sostegno all’innovazione del sistema nel suo
complesso.
m) Uno sforzo particolare va rivolto
all’azione culturale, poiché il nostro Paese è diviso tra una parte che
difende la “cultura” contro la pratica, ed un’altra che crede solo nell’attività
concreta relegando la cultura al ruolo di “rumore di fondo”. E’ questa la vera
divisione nazionale, contro la quale occorre agire dimostrando che le mani sono
la via per il cuore e la mente, e che l’essere umano è unitario. Fare educazione
oggi significa dedicare la massima cura ai giovani, ma anche assicurarsi che
tutti i soggetti coinvolti in questa esperienza (genitori, insegnanti,
imprenditori, amministratori della cosa pubblica) apprendano il senso della
pedagogia dell’esperienza che è insieme azione e riflessione critica e
migliorativa su di essa.
n) Ma il cuore di tutta la riforma - come del
resto di ogni riforma del sistema educativo - sta nella possibilità di sostenere
nel personale la presenza di requisiti di motivazione, preparazione ed
esperienza coerenti con le necessità richieste dalla strategia metodologica
individuata. Per la conduzione dell’équipe dei docenti/formatori occorre
prevede la presenza di un tutor coordinatore; l’impegno orario di tali
figure dovrà essere riferito non solo all’area formativa di specifica competenza
(comunicazione, scientifica, professionale), ma pure ad un ampio ventaglio di
funzioni tra cui l’orientamento, lo sviluppo di capacità personali, il recupero
e lo sviluppo degli apprendimenti, lo stage e l’alternanza formativa. Va a
questo proposito assicurata la formazione del personale attraverso modalità che
valorizzino l’esperienza intrapresa.
6. Il criterio dell’apprendimento in tutto l’arco
della vita. Tra i criteri cui riferire
le scelte da compiere, ha una specifica importanza che i nuovi sistemi
dell’istruzione e dell’istruzione - formazione professionale siano finalizzato
anche all’apprendimento lungo tutto il corso della vita, secondo gli accordi di
Lisbona.
Le dinamiche in atto nell’educazione degli adulti
appartenente al comparto dell’istruzione (Centri Territoriali per la formazione
Permanente e corsi serali negli istituti scolastici superiori) e nella
formazione continua “ a domanda individuale” promossa dalle Regioni segnalano,
così come la presenza consistente di lavoratori occupati tra gli iscritti ai
corsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS), il crescente
interesse di quote ampie di popolazione adulta, anche in condizione lavorativa,
ad un investimento formativo finalizzato allo sviluppo – e non solo
all’adattamento o aggiornamento – delle proprie competenze culturali e
professionali. Vi è inoltre da considerare la condizione di autentica emergenza
formativa in cui si trovano settori consistenti di popolazione, anche delle
fasce di età più giovani, tuttora prive delle competenze alfabetiche
fondamentali.
L’esercizio del diritto soggettivo alla
formazione, introdotto nel nostro ordinamento con la legge 53/2000 ( artt.5-6 ),
richiede d’altra parte, oltre allo sviluppo di misure di promozione e di
appositi dispositivi di sostegno al rientro in formazione in età adulta, anche
la predisposizione di tipologie di offerta adeguate alla specificità dell’utenza
: per flessibilità organizzativa, sistemi di certificazione delle competenze,
modularità curricolare, servizi di orientamento, strumentazione
metodologico-didattica specialistica. Un impegno in questo senso – che si
rivela della massima importanza anche per lo sviluppo della formazione in
contesto lavorativo, a partire dall’ “apprendistato formativo” – deve essere
presente nella fase di attuazione del nuovo disegno riformatore.
3.2 Il sistema pubblico di istruzione
3.2 Il sistema pubblico di istruzione
La nascita del sistema scolastico italiano è
strettamente collegata con la costruzione politica della nazione, e come
conseguenza di questo la scuola del Regno si è posta come obiettivo principale
il raggiungimento di una comune coscienza civica. Per questa ragione, le scuole
private (spesso identificate riduttivamente con le scuole cattoliche) sono state
a lungo considerate come istituzioni segregate e segreganti, in contrasto con
l'idea di cittadinanza, e la funzione dello Stato è stata vista come funzione di
controllo piuttosto che di valorizzazione delle iniziative
educative della società civile. Non sono mancate posizioni di maggiore
disponibilità fin dagli inizi, visto che lo stesso ministro Casati, nel suo
discorso di presentazione della legge che porta il suo nome, citò la Germania
come esempio di uno Stato che non si limita a fornire direttamente l'istruzione,
ma consente alle scuole private di "competere nell'arena educativa". In linea di
massima, però, solo poche voci isolate difesero il pluralismo, messe a tacere
dalla legge Gentile che, in sintonia con le indicazioni politiche del governo
fascista, rinforzava l'idea dello stato laico risorgimentale che la sola agenzia
educativa legittima fosse lo Stato, escludendo così la possibilità sia per le
famiglie che per le comunità locali di essere soggetti attivi nell'educazione.
Il centralismo monopolistico della scuola di Stato
e la marginalizzazione della scuola non statale, comprensibili al momento delle
origini, si sono però mantenuti in modo rigido, anche al di là di ogni ragione
storica e funzionale, anche con la Costituzione repubblicana, che riconosce il
diritto per i cittadini ad aprire scuole, vincolandolo però alla famosa clausola
"senza oneri per lo Stato" contenuta nell'art.33, su cui il dibattito è stato
vivacissimo, e ha visto di fronte, in estrema sintesi, i sostenitori della
scuola non statale, che la intendono come "senza obbligo per lo Stato" e i suoi
oppositori, che la intendono invece come "senza possibilità per lo Stato".
E' importante sottolineare che il controllo
centrale è stato fortissimo anche nei confronti delle scuole pubbliche, tanto
che nel 1950 don Sturzo poteva scrivere che “in Italia non solo non è libera la
scuola in genere, ma non è libera neppure la scuola che dipende dallo Stato.
Questa è burocratizzata, dalle elementari alla media e sotto molti aspetti anche
alla universitaria. Libri di testo, tasse scolastiche, nomine di insegnanti,
trasferimenti, esami, concorsi, licenze, permessi, pensioni, tutto è statizzato.
Non c’è nessun momento della scuola che non sia regolato dall’alto,
uniformizzato, mortificato. Quell’esercito di insegnanti alti e bassi (sotto il
fascismo vestivano divisa militare) che dipendono dal Ministero della P.I. non
debbono avere cervello proprio o volontà propria. Debbono pensare o volere come
pensa e vuole la burocrazia centrale”.
A partire dagli anni Sessanta molto si è mosso per
quanto riguarda contenuti e metodi dell’insegnamento: sperimentazioni, nuova
didattica, pedagogia non autoritaria, lavori di gruppo hanno modificato
radicalmente il modo di fare scuola. Nello stesso tempo i cambiamenti in atto
nella società, con la presenza sempre più capillare di modelli di comportamento
diffusi dai mezzi di comunicazione di massa hanno reso obsoleto il compito di
omogeneizzazione culturale della scuola.
Ma la struttura dell’istituzione scolastica è
rimasta pressoché invariata. Anche quella che era stata presentata come una
grande innovazione, l’introduzione degli organi collegiali, si è risolta, al di
là dell’impegno di molti, in un sostanziale fallimento. Proprio perché, a
dispetto dell’enfasi sul valore “partecipativo” di tali organi, le loro
competenze sono rimaste relegate ad aspetti marginali della vita della scuola,
mentre le scelte decisive rimanevano saldamente nelle mani dell’amministrazione
centrale.
Su questo scenario si collocano le novità portate
dalla legge 59/1997 (la cosiddetta "Bassanini uno") che conferisce a tutte le
scuole la personalità giuridica e la “gestione di tutte le funzioni
amministrative che per loro natura possono essere esercitate dalle istituzioni
autonome”. È certamente il tentativo più significativo di scardinare il secolare
impianto centralistico del sistema scolastico italiano, e le norme che ne sono
seguite sono il lascito più incisivo dei ministri dell’Ulivo a viale Trastevere.
In realtà, ci troviamo di nuovo di fronte a un
cambiamento incompiuto. Da un lato perché, come è stato rilevato, a fronte della
proclamata autonomia sta un complesso di almeno cinquemila norme di diversa
natura che paralizzano di fatto ogni iniziativa ad ampio respiro (anche perché
se il dirigente infrange una di tali norme risponde penalmente ed
economicamente), con il risultato che ancora una volta lo spazio di manovra si
riduce ad alcune scelte tutto sommato marginali (il 15% dei curricoli, i
cosiddetti “progetti”, che si sono moltiplicati a dismisura non di rado a danno
di una ordinata attività didattica). Dall’altro perché, ed è il punto
determinante, una autonomia reale, efficace, in grado di cambiare davvero il
volto della scuola non può non comprendere la gestione autonoma delle risorse,
umane ed economiche.
Come logico sviluppo delle norme sull'autonomia, è
venuta, con la legge 62/2000, l'istituzione del sistema nazionale di istruzione,
composto da scuole statali e scuole paritarie: terminato il periodo triennale di
sperimentazione, il passo successivo è quello di arrivare a norme attuative che
non si limitino a fissare le - giuste - regole per l'appartenenza delle scuole
non statali al sistema pubblico, ma supportino l'effettivo diritto di scelta
delle famiglie attraverso una reale, anche se graduale, riduzione delle
disparità finanziarie. È questa la questione decisiva, la possibile rivoluzione
copernicana del sistema scolastico italiano, che comporta la necessità di
affrontare l'apparentemente irrisolvibile problema di un sistema di
reclutamento, valutazione e carriera degli insegnanti che tenga conto della
reale capacità di ciascuno.
1. Il sistema di reclutamento e la carriera
docente - Un sistema di reclutamento e
di avanzamento di carriera affidato alle singole scuole, sulla base di una
efficace formazione nazionale adeguatamente certificata, è l’unica via infatti
per metter fine ad una serie ben nota di distorsioni: liste chilometriche di
candidati all’insegnamento frustrati nelle loro aspettative; accesso al ruolo
sulla base di parametri che nulla hanno a che vedere con la reale capacità di
insegnare; instabilità cronica degli insegnanti in cattedra; impossibilità a
intervenire nei confronti di docenti manifestamente incapaci (o anche solo di
motivare i mediocri); demotivazione progressiva dei migliori, che si vedono
riconoscere un trattamento identico a quello di chi si limita al minimo
indispensabile.
2. L’autonomia finanziaria -
Ma l’autonomia delle scuole nell’assunzione, nella
valutazione e nella determinazione di funzioni e retribuzione degli insegnanti è
necessariamente collegata con una reale autonomia nella gestione delle risorse
finanziarie. Anche se le modalità potranno essere complesse, e andranno studiate
attentamente, l’idea di fondo è semplice: si tratta di attribuire a ciascuna
scuola una dotazione finanziaria calcolata in base al numero degli alunni, delle
classi e di altri parametri da definire (in primis la collocazione geografica e
sociale, piccoli Comuni o aree con forte componente di disagio), che poi la
scuola possa gestire in modo responsabile, individuando priorità e obiettivi, e
destinando le risorse in base ai criteri scelti.
3. La parità -
In questa prospettiva, il riconoscimento di una
reale parità, anche finanziaria, alle scuole non statali non è che l’altra
faccia della stessa medaglia. È evidente infatti che una scuola autonoma nei
termini sopra detti è esposta al rischio di una gestione clientelare. La
possibilità che soggetti diversi (non solo privati, ma enti locali,
associazioni, imprese, consorzi…) possano aprire altre scuole, a parità di
condizioni economiche da parte degli utenti, è il presupposto perché sia offerta
sempre una possibilità di scelta alternativa. La presenza sul territorio di una
pluralità di offerte formative, fruibili da chiunque senza differenze di costo,
non può che favorire una competizione virtuosa volta a offrire la migliore
qualità. È, nella sostanza, il modello che si incontra in tutti i Paesi (ad
esempio Gran Bretagna, Paesi Bassi o Spagna) che non hanno subito il trauma
dell’imposizione di governi sentiti come estranei dalla maggior parte della
popolazione, che hanno usato la scuola come veicolo di consenso. Le scuole non
statali devono essere considerate come una risorsa per la riqualificazione e il
rilancio dell’intero sistema formativo pubblico: naturalmente, a condizione che
le procedure di valutazione per la parità siano serie e trasparenti.D’altra
parte, lasciare le scuole non statali a se stesse significa considerarle
estranee o indifferenti all’interesse pubblico, con una palese rinuncia da parte
delle istituzioni democratiche alla loro responsabilità nei confronti dei
cittadini che le frequentano o vi lavorano. Una responsabilità sancita anche dal
quarto comma dell’art. 33 della Costituzione, che impone una legge per definire
le condizioni della parità delle scuole non statali. Tale legge, com’è noto, è
stata approvata soltanto nel 2000: non è stata messa in discussione dal
successivo governo di centrodestra, e deve ancora essere attuata pienamente.
Questa idea di autonomia e parità deve però fare i
conti, in Italia, con due norme costituzionali, entrambe contenute nell’art. 33.
Il terzo comma, il celebre e controverso inciso “senza oneri per lo Stato”, e il
quinto: “È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi
di scuole o per la conclusione di essi”.
·
“Senza oneri per lo Stato” -
Il primo problema in fondo è il più
semplice. Dato che dall’obbligo di istruzione discende l’impegno dello Stato a
sostenere le spese per l’istruzione dei cittadini, finanziare la scuola non
statale potrebbe non essere un onere, ma addirittura un risparmio, perché ogni
alunno che si iscrive a una scuola non statale consente allo Stato di
risparmiare la cifra che gli costerebbe se frequentasse una scuola sua. Non c’è
“onere”, in questa accezione, se non c’è aggravio di spesa rispetto a quella che
lo Stato sosterrebbe se lo studente frequentasse la sua scuola. È ciò che oggi
accade nel settore della scuola dell’infanzia. Circa il 50% dei bambini italiani
in età prescolare, infatti, frequenta scuole comunali o private (in gran parte
gestite da istituti religiosi, ma non solo). Lo Stato interviene con sussidi a
favore di queste scuole perché riconosce che, se dovesse istituire scuole
statali per rispondere all’intera domanda nazionale, andrebbe incontro a oneri
(appunto) di gran lunga superiori. Crediamo sia a questo punto indispensabile
avere dati attendibili sui costi reali delle scuole statali e non statali, dalle
materne alle superiori. Solo così il tema degli “oneri” potrà essere affrontato
in termini adeguati.
·
Il valore legale del titolo di
studio - L’altro ostacolo di ordine costituzionale, più complicato da
rimuovere, è quello del prescritto esame di Stato, comunemente noto come
questione del valore legale del titolo di studio. È questa la vera pietra
d’inciampo sulla strada di un sistema realmente autonomo e pluralista. Finché il
titolo di studio continuerà ad avere valore legale inevitabilmente una grossa
fetta dell’utenza continuerà a chiedere alla scuola, consapevolmente o meno, più
il titolo di studio (il famoso “pezzo di carta”) che una reale preparazione. A
queste condizioni, la concorrenza fra scuole rischia di diventare una
concorrenza al ribasso, una gara a chi garantisce il “pezzo di carta” con
maggior facilità, penalizzando proprio gli istituti di maggior qualità. È su
questo terreno inoltre che prosperano iniziative che poco o nulla hanno di
formativo, e che si limitano a favorire l’acquisizione del titolo, senza
investire sulla qualità dell’istruzione. Si tratta di una distorsione del
sistema italiano che va certamente combattuta ed eliminata. L’abolizione del
valore legale del titolo di studio modificherebbe lo scenario in maniera
radicale: la scuola non avrebbe più da offrire altro che la qualità formativa,
perché il titolo di studio, rilasciato da ciascuna scuola e non più dallo Stato,
spogliato della funzione attuale di chiave d’accesso ai pubblici concorsi,
avrebbe esattamente il valore corrispondente alla stima che ogni scuola si è
conquistata, e conquistata evidentemente per la preparazione dei propri
studenti. Si deve inoltre osservare che il valore legale del titolo
corrispondeva ad un mercato del lavoro caratterizzato dalla centralità
dell’impiego pubblico, e comunque del “lavoro fisso”, sulla base di una
formazione acquisita una volta per tutte. Oggi non è più così: il lavoro ha
caratteristiche di flessibilità e instabilità, mentre coerentemente la
formazione acquista un carattere (tendenzialmente) life long. Per questo
consideriamo quel vincolo costituzionale ormai superato.
3.3 La questione insegnante
La discussione sulla questione degli insegnanti è
prioritaria e va condotta con estrema chiarezza, e sgombrando il campo da
illusioni di tipo salvifico. Sia per consistenza numerica sia per la capillare
diffusione nel territorio gli insegnanti sono un corpo sociale rilevante e in
qualche misura strategico quanto meno rispetto ai tempi di cui ogni Paese avrà
bisogno per metabolizzare le innovazioni: ma sarebbe ingenuo ignorare che
costituiscono, con le loro famiglie, una parte così consistente dell'elettorato,
che nessuna decisione politica può permettersi di scontentarli. E' perfino
stucchevole ripetere ancora che nessuna riforma è possibile senza il sostegno e
la partecipazione degli insegnanti, ma il fatto è che gli insegnanti sembrano
essere come il Bertoldo della novella che, ottenuto il diritto di scegliere
l’albero a cui essere impiccato, salvò la vita e passò alla storia come gran
furbo. E' astratto pensare che gli insegnanti, in presenza di fulgidi esempi del
contrario, unici fra le categorie professionali accettino di subordinare il
proprio interesse corporativo (che ha aspetti legittimi) ad un ipotetico "bene
comune" che è ben difficile definire visto che le forze politiche, oltre a non
essere d'accordo, mostrano su questi temi indifferenza (quando va bene) o
oscillazioni imbarazzanti, ingenerando la pericolosa impressione che il bene
comune non esista o quantomeno non possa essere definito. E la grande stampa non
è da meno, salvo eccezioni lodevoli ma rare.
Due fatti hanno cambiato in profondità la funzione
(e anche la natura) degli insegnanti: l’introduzione dell’autonomia scolastica e
l’innovazione tecnologica, generale e riferita alla scuola. Non è un caso che,
ad entrambe, gli insegnanti e le loro corporazioni associative e sindacali hanno
cercato di opporsi nei fatti se non a parole, ripiegando poi, per quanto
riguarda l’autonomia, sul tentativo di considerarla un valore solo per gli
aspetti riferiti alla didattica (una sorta di riedizione aggiornata della
libertà di insegnamento), e confidando, per quanto riguarda le tecnologie, sulle
lungaggini burocratiche dei governi e, perché no, su altri ritardi indotti dalla
esigenza di meglio definire chi e come doveva partecipare a quello che è anche
un grande affare. Su ognuna di queste ipotesi c’è molto da discutere a
cominciare dalle implicazioni che la questione dell’organizzazione del lavoro ha
rispetto all’uso delle tecnologie.
Quella dei docenti è questione assai delicata, che
comprende due aspetti complementari ed entrambi problematici:
·
la definizione di quali siano i
lineamenti della professionalità insegnante nella scuola autonoma, con le
conseguenze che questo comporta per la formazione iniziale e in servizio. Si
tratta di un problema difficile e dibattuto, che in Italia viene risolto
ricercando una minuziosa descrizione delle attività, e misurando la
professionalità in termini di anni di studio e numero di corsi di aggiornamento;
·
gli aspetti strutturali ad essa
collegati: tipologie di docenti, modalità di carriera e di reclutamento,
mobilità, retribuzione, numero e distribuzione sul territorio. Bisogna dire con
chiarezza che i due aspetti non sono affrontabili separatamente, e che è
necessario potenziare una funzione di governo del sistema che includa una seria
- e finora mai realizzata - politica del personale.
Da tempo ormai la trasformazione della domanda di
formazione, personale e sociale, e l'accento sui nuovi metodi di insegnamento e
apprendimento rimettono in causa i ruoli tradizionali e le responsabilità degli
insegnanti, e si insiste sulla necessità che gli insegnanti dispongano di una
integrazione fra competenze disciplinari e competenze didattiche, intese non
come sola tecnica ma come sviluppo di attitudini specifiche che siano in grado
di individualizzare i percorsi degli allievi facendo divenire il loro curriculum
fluido e interattivo. In Europa ciò non è ancora scontato. La funzione docente,
anche dopo la sua laicizzazione seguita alle riforme napoleoniche, conserva una
dimensione sacrale che vede nella utilità delle conoscenze e nel pragmatismo un
aspetto da rendere subalterno al Sapere disinteressato (si veda, ad esempio, la
diffusione di fenomeni come la resistenza alla valutazione).
La tradizione idealista che ha permeato alcuni
Paesi (Italia, Germania, ma anche i paesi dell’Est) ha reso molto evidente
questo approccio, ma tracce si possono cogliere anche in altri come la Francia.
In ogni caso l’avanzamento delle misure di innovazione dovrà andare di pari
passo con percorsi di prima formazione e di aggiornamento degli insegnanti che
siano realmente corrispondenti alla nuova e diversa dimensione dello spazio
europeo dell’apprendimento permanente.
Bisogna dire con grande chiarezza che gli
insegnanti attuali, nella maggioranza dei casi, non sono in sintonia con un
approccio che privilegi l'apprendimento e la centralità del ragazzo, rispetto
all'insegnamento e alla centralità del docente, e che gli attuali meccanismi
formativi dei nuovi docenti vanno in altre direzioni (dall’approfondimento
disciplinare alle tecniche pedagogiche). Ma bisogna dire con la stessa chiarezza
che la risoluzione della questione delle retribuzioni è condizione ineludibile
per affrontare la questione insegnanti nel suo complesso.
Le scelte del passato (aumento fuori misura del
numero dei docenti, non collegato all'andamento degli iscritti, fino
all'introduzione di variabili didattiche legate prevalentemente al desiderio di
mantenere i livelli occupazionali, livello basso degli stipendi bilanciato dal
carattere solo casuale e volontario della qualità delle prestazioni, o legato a
una retribuzione parte in tempo e parte in denaro, assenza di una politica
riformatrice) pesano come un macigno su qualunque “ricetta” si voglia adottare
oggi, generando uno stallo che è, almeno a parole, rifiutato da tutti, ma che
non è capace di sfociare in risposte innovative, che non eludano però il
confronto con tutta la realtà. Sarebbe indispensabile ottenere una
partecipazione effettiva su questo tema dei sindacati e delle associazioni
professionali.
La condizione da cui partire per immaginare delle
soluzioni è l'individuazione di un percorso graduale, di cui si indichino per
sommi capi le tappe e i tempi.
La gradualità è indispensabile non solo per motivi
culturali, ma perché è impossibile sia moltiplicare gli stipendi attuali, sia
ridimensionare significativamente il numero dei docenti in tempi brevi, e questo
anche se ci fosse un chiaro e reale contesto riformatore", perché le resistenze
consolidate sono fortissime, e non solo a livello sindacale: è necessario da un
lato . fissare degli obiettivi credibili e corrispondenti anche agli standard
europei, che ci si prefigge di raggiungere in cinque/dieci anni, e dall'altro
pensare alternative realistiche e non dequalificate per chi esce dalla scuola
(anche se un attento calcolo delle uscite prevedibili e degli ingressi
programmati potrebbe pilotare senza troppi traumi la transizione), ad esempio
nel settore della formazione permanente, della formazione professionale di
secondo livello e più genericamente nella formazione extrascolastica.
Immaginare che, in questi tempi, il numero attuale
dei docenti possa essere articolato in diversi segmenti anche a tempo parziale
(insegnamenti curricolari fondamentali, altri insegnamenti, attività di
coordinamento e di tutoraggio, etc.) la cui somma
in insegnanti equivalenti sia minore del
numero attuale di 850mila, non ci sembra irrealistico anche perché di una tale
proposta è parte integrante la graduale ma indispensabile abolizione delle
supplenze, il loro riassorbimento nell’organico funzionale d’istituto, la
progressiva adozione di metodologie didattiche che prevedano la scomposizione
frequente del tradizionale gruppo classe, la scelta da parte delle scuole
autonome dei curricoli opzionali e legati alle vocazioni del territorio.
Analogamente non ci sembra irrealistico cominciare
a distinguere nella retribuzione fra chi, per sua scelta o per decisione
collegiale assunta con procedure trasparenti, non è disponibile ad altra
prestazione che quella dell’insegnamento (che resta, non dimentichiamolo, la più
importante), e chi svolge anche altre attività definite all’interno dell’offerta
didattica della scuola o collegate alla realizzazione dell'offerta formativa
(coordinamento, tutorato, gestione dei progetti di istituto, raccordi con il
territorio, stage, orientamento, ... ). La prospettiva deve essere quella
di aprire una carriera docente su cui è necessario dire con chiarezza che devono
essere introdotti elementi di discontinuità e di rischio: il meccanismo
avvilente delle graduatorie e i diritti acquisiti dei precari - che non sono mai
stati valutati - non possono sistematicamente prevalere sui tentativi di
razionalizzazione, e i diritti dei docenti non possono comunque prevalere su
quelli degli studenti.
Collegare queste ipotesi, ed altre magari più
affinate, al processo riformatore significa infine dare un’ulteriore garanzia di
gradualità, di concertazione con i docenti e le loro
organizzazioni, di non improvvisazione. I re taumaturghi non esistono più
da un pezzo e nessuno può far finta di non saperlo per esigenze mediatiche. Il
processo riformatore, piuttosto, ha insite in sé caratteristiche di
processualità e di verifica collettiva sia a livello di opinione pubblica sia
nelle scuole, ed è sulla serietà di questi processi che bisogna puntare.
3.4 Verso un sistema di valutazione
La centralità della valutazione è direttamente
proporzionale al livello di uniformità del sistema: in un sistema centralizzato
e standardizzato, come è stato fino ad ora quello italiano, è sufficiente
valutare i livelli di conformità dei processi alle indicazioni centrali, e la
corrispondenza degli apprendimenti agli obiettivi fissati per i vari indirizzi e
livelli. In realtà, nessuna di queste due forme di valutazione, che sarebbe
forse più corretto definire con il termine "monitoraggio", è stata diffusamente
applicata, perché si dava per scontato che la conformità dei processi esistesse
- tranne in casi palesi e clamorosi di violazione - e perché gli standard non
sono mai stati fissati in modo preciso.
La graduale attuazione di una sistema di scuole
autonome caratterizzate dall'esistenza di un piano dell'offerta formativa rende
necessaria l'esistenza di un sistema di valutazione reale dei processi e dei
prodotti: non si dimentichi che tutti i sistemi che hanno introdotto elementi di
autonomia o di decentramento hanno parallelamente introdotto o riformato i
sistemi di valutazione e controllo, che fanno parte dei compiti specifici e
irrinunciabili del centro. La valutazione non è più finalizzata a verificare la
conformità, ma a controllare il raggiungimento degli obiettivi: dal punto di
vista delle politiche educative (ma anche dei diritti primari del cittadino, su
cui gravano in ultima analisi i costi dell'istruzione pubblica), il suo compito
primario è quello di verificare se le risorse stanziate hanno raggiunto gli
scopi proposti (efficacia) e sono state impiegate in modo ottimale
(efficienza). La valutazione è finalizzata a fornire ai decisori elementi per il
governo del sistema, agli operatori elementi per il miglioramento del servizio,
e agli utenti elementi conoscitivi per compiere scelte che consentano di
conseguire il massimo possibile di risultati (“successo formativo”) tenuto conto
delle circostanze. La valutazione, per essere adeguata, deve acquisire i punti
di vista dei diversi soggetti coinvolti (stakeholders).
1. I diversi livelli della valutazione -
La valutazione (sia di prodotto che di
processo) si attua a diversi livelli: le scuole, il sistema formativo nel suo
insieme, gli operatori.
Le scuole, e in generale le agenzie e i
sistemi formativi sono organizzazioni atipiche, che non producono né
servizi né prodotti in senso stretto, ma producono una trasformazione, in
quanto le persone che vi entrano ne escono con caratteristiche diverse,
perseguendo obiettivi fissati dalla comunità o dai singoli. Questo non
significa che le scuole non possano essere valutate, ma che devono essere
valutate tenendo conto di una serie di specificità, prima fra tutte
l’impossibilità di effettuare una valutazione non solo corretta, ma soprattutto
utilizzabile e dotata di conseguenze, senza coinvolgere gli operatori
(dirigenti e docenti), le famiglie e la comunità locale. Da questo punto di
vista l’autovalutazione non è e non deve essere identificata con l’autoreferenzialità,
ma costituisce necessariamente il punto di partenza per un sistema di
controlli esterni.
La valutazione degli operatori ha
caratteristiche sue proprie all’interno del processo di valutazione (tanto che,
ad esempio, in inglese viene indicata con il termine specifico di appraisal).
Le resistenze degli insegnanti ad essere valutati sono sempre state molto
forti, come la storia recente ci dimostra, e potrebbero diminuire se ne
fossero chiare le modalità e gli scopi (che non sono punitivi, ma di
miglioramento del servizio scolastico). La valutazione degli operatori si
articola su tre livelli:
·
verifica dei requisiti di
accesso alla professione: oggi tutt'altro che scontata (l'entrata in ruolo
avviene dopo una regolare selezione solo in un numero relativamente basso di
casi), sarà compito delle università e di nuovi e più efficaci meccanismi di
selezione iniziale, che in ogni caso comportino una verifica delle attitudini
alla gestione della classe, e non solo delle conoscenze disciplinari o teoriche;
·
verifica della capacità dei
singoli docenti di collaborare al progetto formativo dell’istituto, e di
inserirsi in esso, con funzioni anche esterne all’insegnamento; non può che
avvenire all'interno dell'istituto stesso, anche se in base a criteri fissati in
modo uniforme, e comporta una delicata ridefinizione del concetto di “libertà di
insegnamento”.
·
verificare della “manutenzione” e
dello sviluppo delle competenze disciplinari e didattiche, che può anche
essere centralizzata, anche se necessariamente collegata al punto precedente,
soprattutto se è in vista di una progressione di carriera o a meccanismi
premiali, che vanno però introdotti con particolare cautela.
La valutazione “punitiva”, tesa ad individuare
comportamenti inadeguati o insufficienti o addirittura dannosi, se i tre punti
suindicati funzionassero, dovrebbe essere limitata a pochi casi eccezionali.
2. I contenuti della valutazione -
Se la valutazione è un processo complesso e
articolato, è necessario definire gli ambiti al cui interno viene attuata, che
sono quelli che costituiscono il sistema formativo: gli apprendimenti, gli
insegnamenti e il modello organizzativo.
· Gli apprendimenti. Anche se è fondamentale e imprescindibile indicare sia degli standard minimi, di “sopravvivenza sociale”, che costituiscono le soglie al di sotto delle quali non si può scendere, sia degli standard relativi ai vari livelli e indirizzi di istruzione e formazione, valutare significa soprattutto andare a misurare gli scostamenti fra l’inizio e la fine di un percorso, individuando all’interno gli elementi di successo e quelli negativi. Ciò significa che accanto agli apprendimenti è necessario rilevare le condizioni di contesto, gli strumenti disponibili, i modelli organizzativi. Gli studenti reagiscono agli stimoli in maniera differenziata, e di questo è necessario tenere conto: in altre parole, il giudizio sulla qualità del servizio non coincide con i livelli di apprendimento degli studenti, che pure rappresentano un importante indicatore;
· Gli insegnamenti. Gli insegnamenti devono costituire un oggetto specifico di valutazione che va affrontato a diversi livelli: a livello di sistema, essa comprende gli obiettivi, i curricoli, le competenze attese, e quant’altro, mentre a livello di unità scolastica, riguarda la capacità delle scuole di tradurre e organizzare i mandati che riceve (dal centro, dalla comunità locale, dal mercato del lavoro, dalle famiglie…), per far fronte ai bisogni di un’utenza specifica, tenendo conto delle risorse disponibili. E’ questo che si intende per autovalutazione: è evidente che questo processo di valutazione comporta un giudizio sulla qualità dei docenti e del capo di istituto: per quanto riguarda i singoli docenti, l’autovalutazione di istituto dovrebbe fornire indicazioni sulla capacità di ciascuno di contribuire al processo di miglioramento del servizio scolastico.
· Il modello organizzativo – A livello di sistema, la valutazione del modello organizzativo è una valutazione dell’efficacia delle politiche educative nazionali o locali, ed implica l’utilizzo di un complesso sistema di indicatori, già largamente sperimentato sul piano internazionale. Il fatto che l’Italia sia in grave ritardo rispetto alla media dei paesi europei, paradossalmente, ci consente di approfittare della loro esperienza, non riproducendo pratiche sia pure virtuose, che in contesti diversi potrebbero avere esiti negativi, ma rileggendo il rapporto fra contesto e soluzioni che ha portato al successo o all’insuccesso. Questo lavoro che richiede tempo e risorse, ma è il solo che consente sul lungo periodo di valutare l'efficacia delle riforme.
A livello di istituto, si sta diffondendo l'abitudine a compiere un’autovalutazione, che ha però due limiti: non esistono protocolli almeno in parte comuni e consolidati, e gli esiti dell'autovalutazione non vengono controllati dall'esterno (i due elementi sono evidentemente collegati). Se si vogliono diminuire le resistenze alla valutazione esterna, è indispensabile che le scuole sappiano su che cosa saranno valutate, ed è compito del servizio nazionale di valutazione indicare con chiarezza e dettagliatamente i contenuti e le procedure, e predisporre una rete di sostegno al cambiamento. A tal fine risulterà decisivo il ruolo delle regioni. Al livello nazionale vanno infatti riservati compiti di verifica della tenuta del sistema sotto il profilo dell'uniformità degli standard, di coordinamento, raccolta e comparazione dei dati, di somministrazione periodica di test per la rilevazione degli apprendimenti, di attività di promozione e di partecipazione nell'ambito delle indagini internazionali. Toccherà invece alle Regioni, che già detengono funzioni di controllo e determinazione degli standard in materia di formazione professionale, dotare il sistema educativo locale di adeguati strumenti di sostegno alle scuole per la propria attività di valutazione; ad esse competerà inoltre, entro certe misure e nei modi appropriati, di rendere pubblici i rendimenti del sistema nel suo complesso, consentendo in prospettiva il ranking delle scuole, fondato su elementi condivisi ed equi di giudizio, a beneficio delle famiglie e dell'opinione pubblica.
3. Le direzioni di lavoro -
Il punto centrale per lo sviluppo del sistema di
valutazione è la capacità di metterlo in relazione con la realizzazione
dell'autonomia, di cui rappresenta l'inevitabile corollario e condizione, sia
seguendo le indicazioni del Ministero, sia recependo le indicazioni che
provengono dalla scuole. E' ancora in larga misura da chiarire il ruolo delle
Regioni, che con la riforma costituzionale potranno decidere di dotarsi di
specifici organismi di valutazione di tutte le agenzie formative presenti sul
loro territorio.
Tenendo conto di quanto è già in corso di
realizzazione, si può pensare di procedere in quattro direzioni:
·
Continuare nel processo di
determinazione degli standard di apprendimento
e dei momenti della misurazione, in corrispondenza con la riforma dei cicli e
per un certo numero di materie; individuazione degli indicatori;
somministrazione dei test e loro correzione; costruzione di un archivio di dati;
pubblicazione. I punti di riferimento sono le grandi indagine internazionali,
con cui è necessario mantenere un rapporto sistematico di collaborazione, anche
promuovendo nelle scuole l'utilizzo (sia pure critico) degli indicatori
internazionali dell'apprendimento;
·
determinazione degli standard di
processo da utilizzare sia per la
valutazione esterna che per l'autovalutazione delle scuole (che potranno
evidentemente integrarli con indicatori di loro specifico interesse);
·
avvio di un sistema di controlli
esterni da parte di valutatori
riconosciuti (audit). Questo punto si presenta in forma più problematica,
per due motivi: da un lato mancano esperienze dirette, e quindi è necessario
rifarsi ad esperienze straniere non sempre trasferibili in modo automatico,
dall'altro la scuola concepisce ancora la valutazione esterna come un meccanismo
di tipo punitivo, e quindi ne diffida. A questo si aggiunga la necessità di
individuare un profilo professionale dei valutatori, e di formarli
adeguatamente. L'analisi delle sperimentazioni in atto mostra che sarebbe
possibile ricavare dalle autovalutazioni un set di indicatori comuni da
utilizzare come base per una comparazione completato da un esame diretto, da
realizzare ricorrendo a meccanismi di peer review, o attraverso un
sistema ispettivo, che periodicamente visitasse tutte le scuole, in cicli
pluriennali, presumibilmente ogni 4 / 6 anni.
·
Diffusione delle informazioni
presso gli utenti. Il sistema di audit,
una volta avviato a regime, consentirebbe di costruire delle graduatorie fra
istituzioni e corsi, con la duplice finalità di intervenire in modo specifico
con le scuole eventualmente prive dei requisiti minimi, e di informare le
famiglie, al momento della scelta, sulle caratteristiche e sui risultati delle
singole scuole del sistema nazionale. Dal momento che il sistema di audit
potrebbe essere applicato alle scuole sia statali che paritarie, esso potrà in
futuro integrare o sostituire l'attivazione di procedure di accreditamento.
Resta aperto il problema della certificazione
di qualità, attualmente richiesta per la partecipazione ai bandi europei ai
centri di formazione professionale. Al momento non pare né realistico né
particolarmente utile renderla obbligatoria, e neppure spingere le scuole perché
attivino le procedure di certificazione: essa è una libera scelta delle singole
unità scolastiche (ad esempio perché considerata gradita alle famiglie) e
costituisce un'utile occasione di ripensamento delle attività della scuola, ma
non va considerata un punto di arrivo.
Queste riflessioni, che vertono sulla centralità
di una valorizzazione delle esperienze compiute, suggeriscono da un lato
di migliorare il sistema informativo, raccogliendo e rendendo disponibili alle
singole scuole sia gli strumenti che gli esiti, e dall'altro lato di procedere
con grande cautela ed estremo rigore metodologico alla sperimentazione, che ha
l'obiettivo di individuare elementi generalizzabili (e possibilmente utili per
la comparazione internazionale) nell'ambito della valutazione degli
apprendimenti, degli standard di sistema e dei meccanismi di audit. E'
inoltre necessario chiarire le competenze dei diversi soggetti, e definire le
caratteristiche che il sistema di valutazione dovrà avere a livello centrale,
regionale e di istituto.
4. Conclusioni
Il riformatore avveduto ha ben presenti le abitudini e le idee consolidate della gente, e quando non può perseguire ciò che è giusto non disdegna di migliorare quel che è sbagliato (T.SOWELL, A conflict of visions, William Morrow, New York 1987, p.33)
Il progetto presentato in queste pagine si basa
fondamentalmente sull'idea che l'educazione vive di tempi lunghi, e per cambiare
ha bisogno di un respiro ampio e di uno sguardo attento ai bisogni di tutta la
società civile, e non solo ai pareri dei tecnici, o agli interessi dei politici,
o alle sollecitazioni dei mass media, che sono sempre e implacabilmente
riduttivi. Una scuola che mette al centro la persona, con la varietà
irriducibile dei suoi bisogni e dei suoi interessi, deve essere di tutti,
parlare a tutti "valere la pena" per tutti: se il nostro paese non sceglie di
investire in educazione, ha già rinunciato a crescere, e non solo
economicamente.
Un sistema educativo che si pone al servizio della
persona vive le contraddizioni del nostro tempo come una sfida: si può e si deve
difendere una cultura che è, insieme , unitaria e complessa, ma si può farlo
solo se si crede in un obiettivo comune, se si sceglie di correre il rischio
dell'impopolarità, del non politicamente corretto. Steve Fuller ha scritto che
“l’educazione non va confusa con la capacità di adattarsi alle circostanze…nulla
di ciò che un uomo può apprendere in questo modo ha alcunché a che fare con
l’educazione”, e ci sembra un'osservazione da condividere, per partire da lì a
costruire, con e per i giovani, quella cultura che, diceva scherzosamente Albert
Einstein, "è quello che resta quando si è dimenticato tutto il resto".
Ricostruiamo allora il filo delle nostre
riflessioni, e le proponiamo al dibattito per tutti coloro che ritengono di
poter lavorare, insieme, magari partendo da posizioni anche molto diverse.
1.
Per un paese civile che intenda tenere il passo con lo sviluppo non solo
economico è di vitale importanza / condizione irrinunciabile disporre di un
sistema formativo in grado di rispondere alla domanda di formazione delle
persone e della società civile nelle sue varie componenti, dalle imprese al
sistema politico, dalle comunità locali alle famiglie;
2.
Il sistema educativo di istruzione e formazione in Italia è quantomeno
discontinuo sia nelle sue forme organizzative che per la sua qualità, ed ha
bisogno di essere riformato in modo globale, rispettando i valori della
tradizione ma con una chiara consapevolezza di quanto la società sia cambiata,
esprimendo così una diversa domanda di formazione;
3.
I governi che si sono succeduti almeno nell'arco delle ultime due
legislature hanno mostrato di esserne consapevoli, ed hanno avviato una politica
di riforme, che non è stata per il momento completata. Punti acquisiti sono
l'autonomia delle unità scolastiche e l'attribuzione di maggiori poteri nel
campo dell'istruzione alle Regioni con la modifica dell'art.117 della
Costituzione e la rinnovata considerazione per il sistema dell'istruzione e
formazione professionale;
4.
Sulla scorta dell'esperienza passata, e delle nostre personali
convinzioni, formuliamo l'ipotesi che sia necessario individuare dei punti che
sono di interesse del paese in quanto tale e non di una o dell'altra
maggioranza. Su tali punti è opportuno, per il bene comune dei giovani, giungere
ad un accordo di massima che valga fino all'attuazione competa della riforma, -
fatte salve le indicazioni provenienti dalla sperimentazione - anche nel caso di
un'alternanza delle parti politiche al governo
5.
Il sistema educativo di istruzione e formazione che emerge da questa
ipotesi di accordo non è un sistema mediocre, su cui c'è accordo perché non
scontenta nessuna, ma è anzi un sistema di qualità diffusa, su cui c'è accordo
perché punta ad un miglioramento continuo dei processi educativi e formativi,
garantendo sia il successo formativo nelle forme più adatta a ciascuna persona,
sia l'eccellenza per i migliori, grazie alla valorizzazione e alla pari dignità
dei diversi percorsi, che non si ottiene abbassando demagogicamente la
difficoltà dei percorsi tradizionali, ma garantendo la qualità nella diversità;
6.
La riforma che può dare vita a un sistema di qualità è necessariamente
una riforma in continua ma non immemore trasformazione, capace di sviluppare i
valori della tradizione e di accogliere i suggerimenti che vengono da una scuola
che sa creare cultura su se stessa, ma anche di far proprie le indicazioni che
vengono dal sistema produttivo e dalla società civile: una scuola in cui
l'autonomia non è confuso e velleitario nuovismo, ma esercizio consapevole della
responsabilità educativa, e la partecipazione non è una delega rassegnata o
disinteressata, ma valorizzazione delle potenzialità educative delle famiglie,
delle imprese, delle comunità locali.
7.
Il compito di chiunque si interessi di scuola, negli ambiti in cui può
essere ascoltato, è quello di sottolineare instancabilmente e - speriamo - non
inutilmente che una società che non si occupa della crescita pienamente umana
dei suoi giovani membri non solo non potrà mai essere civile, ma proprio per
questo non sarà mai nemmeno ricca, ed è compito primario dei decisori politici
garantire le risorse e le condizioni per cui questa crescita possa avvenire,
nella scuola e fuori della scuola;
8.
L'intero discorso della riforma non può avvenire senza tenere presenti i
recenti sviluppi della normativa costituzionale sull'attribuzione di poteri alle
regioni, che dovrà essere definito non appena la normativa sarà stata
completata.
9.
Perché la riforma finalmente decolli e possa svilupparsi occorre saperle
garantire un quadro di consapevolezze e di consensi da parte sia degli "addetti
ai lavori" che delle famiglie e della pubblica opinione in generale, che devono
essere messi nelle condizioni di condividerne le profonde ragioni culturali.
10.
In un’opera di convincimento reciproco, fra una società che deve cambiare
il suo modo di leggere la scuola e una scuola che deve accogliere le esigenze di
innovazione culturale che emergono dal mondo circostante, un ruolo significativo
viene attribuito alle tecnologie, da non intendersi solo come risorse tramite
cui aggiornare il patrimonio delle attrezzature didattiche, ma come stimolo ad
ampliare e differenziare le prospettive sul sapere e come occasione per
ripensare i meccanismi dell’organizzazione del lavoro dentro la scuola.